sabato 18 settembre 2010

Una notte blu cobalto

La prima sensazione che questo film mi ha trasmesso è stata una pacata, apatica angoscia. Non so se fosse per la spocchia da adolescente forzatamente anticonformista di Regina Orioli, fissa, immobile nella sua rara antipatia, o quella sciarpetta da intellettuale fallito perennemente avvolta al collo di Corrado Fortuna. Una delle due cose comunque, probabilmente volute, mi ha sussurrato appena entrata in sala che questi personaggi fossero imprigionati in una dimensione di vuoto cosmico.

Lui, Dino, è stato lasciato da lei, Valeria, e non se ne riesce a fare una ragione. Per questo gironzola per Catania senza uno scopo nel cuore della notte finché un magico impulso non lo spinge a proporsi come garzone per una pizzeria, la Blu Cobalto. In questo luogo un po’ fuori dal mondo il proprietario, che sembra più che altro un sofisticato addestratore di marines che cita Sunzi a spron battuto, gli imporrà una serie di strambe consegne.
Fra un’inquadratura di un monumento e l’altra, i clienti in cui si imbatterà il nostro protagonista insieme alla sua inseparabile pashmina tolgono l’aria a chi guarda. Solitudine, pazzia, morte, vecchiaia, infanzia abbandonata, questo il terreno minato degli aficionados della pizza blu cobalto. Nelle loro brevi apparizioni non lasciano nulla allo spettatore (a parte, di nuovo, una lieve angoscia), sono entità quasi fantasmatiche, a dire il vero un po’ troppo fini a se stessi, macchiette, per così dire.

Che si tratti di una specie di onirico viaggio di formazione si capisce alla seconda consegna, davvero troppo surreale per suggerire qualsiasi altra ipotesi, e alla quarta, quinta e sesta nulla viene aggiunto. La storia semplicemente continua a ripetersi. Fino al finale risolutivo, che chiama in causa polveri magiche, scatole luminose e lucciole danzanti.
Una sorta di sapore fantasy che però non riesce a rendere gustosa la trama, che giace tutto sommato senza senso. Scontato il messaggio di redenzione per cui Fortuna e la sciarpetta radical chic superano quel senso d’inadeguatezza lasciato loro dal broncio con cui la Orioli si veste dal 1997.

Davvero le nostre nuove leve cinematografiche vogliono accontentarsi di questa pochezza a livello di contenuto? Ciò stupisce soprattutto perché al contrario il film merita molto a livello formale, ricco di inquadrature interessanti, piani sequenza elaborati che integrano diversi piani temporali, la tecnica è padroneggiata molto bene, perfino in un’improbabile scena d’amore seguita con molto gusto e gentilezza.
Gangemi è alla sua opera prima ed è riuscito a far produrre e distribuire un film realizzato con 500.000 euro senza aiuti statali. Per di più non si tratta di una storia di polizia, carabinieri, mafia o immigrazione nel più classico stile italiano. Per questo, anche se dalla sceneggiatura si poteva spremere di più, il film merita di essere supportato.

(Cristina Fanti)

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