mercoledì 22 dicembre 2010

Un altro mondo

Cronistoria del film di Natale.
Anni 80: Una poltrona per due.
Anni 90: Schwarzenegger fa il papà di famiglia, bambini cercano tesori e mettono trappole sentendosi grandi per un giorno, qualche batuffolo di neve e redenzione per tutti nel finale.
Anni 2000: donne nude, seni, sederi e volgarità.
Anni 2010: Silvio Muccino.

Tale pare la piega presa dal filone con questo lancio coraggioso della Universal durante la festività più amata dagli italiani. Coraggioso perché nel film non ci sono né Boldi né De Sica.
Bensì tanti sentimenti, anche se un po’ scorretti perché tutti facilmente affidati agli occhioni di Michael Rainey Jr., il bimbo protagonista, nero e orfano, praticamente un magnete di simpatie per il pubblico. Gli adulti invece, quasi tutti freddi e imbalsamati per la maggior parte del film, senza grande sforzo per gli attori chiamati a interpretarli, restituiscono una realtà un po’ troppo stilizzata. Secondo i produttori si tratta di una storia di redenzione che si fa paladina dei veri ideali da diffondere a Natale. La concorrenza di questi tempi è effettivamente abbordabile, ma in qualche modo il film, nonostante i vantaggi di cui sopra, esce sconfitto.

In conferenza stampa si parla di esistenzialismo, perché, nell’anno e mezzo in cui Silvio Muccino e Carla Vangelista (autrice del libro da cui il film è tratto) si sono impegnati a scrivere la sceneggiatura, hanno avuto abbastanza tempo per rimpinzarla di tutti i temi più vaghi e generici che attanagliano la natura umana: il razzismo, la solitudine, il rapporto con il proprio corpo, quello con gli altri, la povertà e dulcis in fundo la morte, che unisce sempre famiglie e spiriti e coagula la formula perfetta per le feste.
Chiuso il cerchio di questo “vero” film di Natale, si sente forte profumo di fiera delle banalità.

Muccino ci informa che ama i racconti di formazione ed è stato per questo attratto dal libro della Vangelista, che costringe i propri personaggi a guardarsi dentro, fare i conti con il proprio passato e diventare uomini. Peccato che ciò che vediamo nel loro profondo sia no-io-so.
La recitazione non aiuta; anche se come al solito tutti gli attori dichiarano quanto interpretare questo ruolo sia stato bellissimo, fuori dal comune, e che abbia dato loro la possibilità di mettersi alla prova, di abbattere barriere, di superare se stessi e migliorarsi nella loro arte, la piattezza ci affonda. L’unico ad emozionare qua e là è il bambino.

Le risate e i commenti in sala a scena aperta lo confermano: ad una interessante premessa del soggetto corrisponde una sceneggiatura inesistente e dei dialoghi da raccapriccio, vero motore di ilarità. Non si spiega come la scrittrice-sceneggiatrice abbia avuto la fantasia di martoriare volontariamente la sua opera narrativa. A condire, alcune scelte discutibili, come la lunghissima sezione di apertura in cui Silvio fa da narratore descrivendo ciò che i vari personaggi fanno in video. Didascalico, tautologico e ridondante. Neppure foneticamente interessante considerate le ripetute visite del nostro dal logopedista.

Ammirevole il coraggio che Muccino ha nel proporsi come autore cinematografico in un paese in cui l’arte va morendo. Uno dei pochi che ancora scrive, dirige e recita. I risultati fanno però presupporre che il ragazzo sia quantomeno acerbo, e che forse prima di lanciarsi a capofitto in opere bibliche sarebbe meglio si dedicasse ad uno solo dei settori di suo interesse, per approfondirne i meccanismi. Un Tarantino c’è già stato, e non è nato in Italia.

(Cristina Fanti)

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martedì 14 dicembre 2010

Tron Legacy

Per chi non ha visto il primo film questa storia è piatta e insulsa. Per chi invece ha familiarità con il prequel, ma di blando coinvolgimento, è più che altro un insulto. Prodotto Disney che scivola facilmente in un regno di pertinenza Chicco. Un intreccio da encefalogramma piatto. Personaggi con lo spessore di una velina (il foglio di carta, ma anche la soubrette se preferite). E’ superfluo contemplare il punto di vista degli aficionados del franchise; l’amore si sa, è cieco.

Il vecchio Tron datato 1982 è stato applaudito a ragion veduta per le sue implicazioni rivoluzionarie. Creato su un computer con 2MB di memoria, che un bambino delle elementari ormai non sa neanche immaginarseli, e con un procedimento certosino. Date le difficoltà tecnologiche di dettagliare gli effetti digitali, che non conoscevano comunque ancora il modo di essere mischiati con le immagini catturate dal vivo come invece facciamo ai giorni nostri, si è deciso di utilizzare il colore nero per nascondere le imperfezioni. Si è girato così in bianco e nero, su un set completamente nero; stampate le immagini su pellicola a forte contrasto, poi stratificata con vari livelli di copie positive e negative, queste sono state colorate a mano per donare loro connotati futuristici.

Il nuovo Tron si propone di raddoppiare il primato e di replicare, a distanza di trent’anni, la fortunata introduzione di tecnologie innovative. Ripetere la storia però non è facile. Ci provano comunque, convinti, vantando di essere il primo film in 3D realizzato con lenti e sensori da 35mm. Inoltre per la prima volta un attore, Jeff Bridges, che ritorna nei panni del Kevin Flynn già interpretato nel prequel, per essere digitalmente ringiovanito recita fra i suoi colleghi indossando un casco creato con uno stampo del suo viso e dotato di 52 sensori, che catturano le sue espressioni e le trasferiscono ad un modello realizzato con un patchwork di decine di sue vecchie foto. Interessante. Ma non saprei quantificare quanto pioneristico. La parola Avatar mi gira vorticosamente in testa.

All’opposto su alcuni tasti si è scelto di non picchiare diversamente dal passato, bensì conservare la matrice originaria. Il pesante bagno di nero nato all’epoca del primo capitolo dalla necessità, è mantenuto fino allo stremo. Dopo un’ora gli occhi, già oberati dagli appannati (indipendentemente da quante volte si tenta di pulirli con l’apposito panno) occhiali 3D, fanno fatica a distinguere cose e persone.
Il regista, laureato in ingegneria meccanica e architettura, affascinato dalle linee geometriche, ha serbato inoltre l’impianto visivo squadrato di stampo anni 80, sia come omaggio al suo predecessore, sia perché intrigato dalla possibilità di integrare diverse tipologie di oggetti di design, come ad esempio sedie barocche e neon nella casa digitale di Flynn. Il tutto in un misurato equilibrio, fortemente voluto, fra quegli elementi d’arredo in cui si può inciampare e un meno ingombrante blue screen.

Il 3D, utilizzato soprattutto all’interno del mondo digitale, a cui fanno da reggilibro un incipit e un epilogo in due dimensioni che si svolgono nel mondo reale, non è invadente ed è integrato in maniera quasi impercettibile, eccezion fatta naturalmente per i fastidiosi occhiali. Nei rocamboleschi combattimenti non ci sono dischi, armi di fiducia del protagonista e relativi nemici, lanciati contro il pubblico, né moto luminose che durante gli inseguimenti saltano fuori dallo schermo per farci nascondere dietro al nostro vicino. Kosinski ha usato la tecnologia più blasonata del momento in maniera intelligente, per arricchire l’esperienza visiva e non per essere l’esperienza visiva.

Il lavoro creativo è stato elaborato. Sono stati chiamati a collaborare per il design dei veicoli gli ingegneri delle più grandi case automobilistiche; i costumi, realizzati in gomma con inserti di lampade elettroluminescenti, anche in questo caso per privilegiare il realismo alla computer grafica, hanno necessitato di ricerche e sarti all’avanguardia; perfino alcuni scienziati sono stati disturbati per accertarsi che la storia narrata fosse conforme alle maggiori leggi scientifiche. Mi lascia basita dunque che da un impegno così importante sia risultato un prodotto tanto banale, per non dire terribile.
Si dice che al centro dei ragionamenti ci sia stata l’intenzione di rendere al meglio il peso del rapporto tra padre e figlio, ma sinceramente, dalle tre battute in cui questo tema viene sfiorato, non mi è sembrato che gli sceneggiatori abbiano avuto delle brillanti relazioni genitoriali cui ispirarsi.

Per tutti i film brutti della storia, nel trovare qualcosa da salvare, capita di fare i complimenti alla musica. In questo caso sono veri. Gestita interamente dai Daft Punk e vera protagonista, dal momento che il materiale narrativo è scadente, tocca a lei guidare il gioco fra un esperimento grafico e l’altro, come se fossimo sintonizzati su un promo di MTV.

Una nota positiva, in questo brodo riscaldato di eroi, antieroi, geniali scienziati, ragazzi prodigio e grandi topolone cibernetiche, il seguente picco di coraggio: tra i due protagonisti, giovani e fighi, finanche nella sentimentale scena finale, il film resiste dal far scoccare il più classico dei baci risolutori. Almeno questo cliché ci è stato risparmiato. Fino al prossimo sequel.

(Cristina Fanti)

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mercoledì 8 dicembre 2010

Le cose che restano

La fiction televisiva, concetto interessante. Raccontare lentamente in sei ore, ovvero quattro puntate, quello che si potrebbe raccontare con un po' di ritmo in una volta sola. Non è un'idea che mi fa impazzire; al contrario sono molto parziale alla parola Santamaria. Perciò partecipo alla maratona di questo che vuole essere un film epico, una sorta di romanzo storico, un Ivanhoe de noantri, prosecuzione ideale di quei La vita che verrà e La meglio gioventù che hanno tracciato negli anni passati i modi in cui l’Italia ha reagito a quattro decenni di menate politiche e compagnia cantando.

Questa volta arriviamo al presente, capolinea della trilogia. La scintilla è una casa, culla di una famiglia calda e fracassona. Borghese e luminosa, a seguito della tragica morte del figlio più piccolo, così come la madre reagisce al lutto scappando in una clinica, così la casa si svuota e rimane al buio. I tre fratelli sopravvissuti cercano di trovare ognuno la propria strada attraverso conflitti e rapporti che permetteranno loro di ripopolarla stanza per stanza, restituendole le sue funzioni vitali e trasformandola nel simbolo della possibilità di creare nuove forme di famiglia, non più legate al sangue ma al bisogno di un’identità esistenziale talvolta ancor più profonda.

Per lanciare questo messaggio di positività, restare nella quotidianità degli eventi e fare nel contempo un quadro generale della situazione italiana di questo preciso momento storico si scomodano talmente tanti argomenti che il risultato è un calderone di tematiche grosso e confuso. Fornisco un conciso sommario.

C’è una psicologa, con tutte le pesanti implicazioni di questo mestiere. Soprattutto essa tratta il caso di un militare che a seguito di un incidente ha perso la memoria, si parla di guerra. C’è un laureato in architettura che però va a lavorare in cantiere, ed ecco il precariato. C’è un funzionario ministeriale che si occupa di controllo dell’immigrazione e ci porta con lui ad uno sbarco in Sicilia. C’è un omosessuale che s’innamora di un uomo che ha una figlia, si affrontano le coppie gay e la paternità. C’è la madre di questa figlia che è una tossica senza fissa dimora, su un piatto d’argento droga e vagabondaggio. C’è un malato terminale. C’è un locale di spogliarelliste che nasconde un giro di prostituzione e di sfruttamento di straniere, una delle quali è brutalmente uccisa, guidandoci alla riflessione su una salma non identificabile che “tornerà al suo paese senza un nome e senza amici”. Ci sono un paio d’immigrate che cercano di ottenere un visto, un ulteriore pizzico d’integrazione culturale. C’è un aborto, tradimenti e divorzi, per parlare della vita e del valore della famiglia. C’è un architetto che indaga sugli abusi avvenuti in un orfanotrofio che sta cercando di restaurare, ombre di violenza; lo stesso architetto con il progetto dell’orfanotrofio cerca di vincere un concorso, per voi l’amministrazione pubblica. C’è una madre che impazzisce dopo la perdita del figlio, si medita sulle malattie mentali. Naturalmente poi c’è la morte di un diciassettenne, con tutte le conseguenze del lutto, e cioè la fiction stessa.
A coronare questo polpettone (nel senso di una pietanza fatta di tanti ingredienti, per carità), senza alcun motivo, durante una panoramica di un parcheggio, indugiamo per qualche lungo secondo su un pulmino dal quale scende un gruppetto di ragazzi down. Meno male, adesso non manca proprio niente.

L’impressione è che in Italia non si riesca a mantenersi su un nucleo narrativo solido, piuttosto quando si opta per progetti importanti come questo si sente sempre il bisogno di allargare lo spettro dell’indagine alla società tutta. E così ogni volta si producono film che durano mezza giornata e che per ovvi motivi hanno come unico sbocco possibile la televisione. Nonostante una disponibilità di tempo tanto generosa alcune situazioni sono ugualmente poco approfondite e nebulose. Il rapporto romantico fra un’immigrata e il poliziotto incaricato di sorvegliarla, su tutte, è superficiale, banale e assolutamente non declinato.

Considerato ciò la storia resta comunque scritta bene, uno o due personaggi sono molto intriganti e i dialoghi in alcune scene davvero sopra la media. Insomma non stiamo parlando di una soap con Gabriel Garko. Sicuramente e genuinamente un altro livello.
La musica è curata con zelo, bella la scelta di utilizzare tanta classica; alcune svolte registiche palesemente cinematografiche non passano inosservate; pulita la fotografia che ricerca riflessi arditi in scene come quella in cui il volto di un uomo si riflette  negli occhi della donna che ama, ed appare e scompare ad ogni battito di ciglia.

Le linee narrative migliori e i momenti più toccanti sono riservati all’amore, delicati e sentimentali al punto giusto, a onor del vero ben fatti, tra le coppie Balducci-Liskova e Santamaria-Neuvic. Proprio Neuvic e Fantastichini regalano performance da brividi.

Quest’ultimo dichiara di avere una visione rosselliniana della TV che dovrebbe educare le masse, aumentare la qualità della loro coscienza civile, insegnare a combattere l’intolleranza, a promuovere l’integrazione e l’armonia; proprio quello che ottiene a suo parere Le cose che restano. Non condivido, credo invece che questo prodotto rischi troppe volte di ottenere l’effetto contrario, di essere noioso e di scoraggiare in ultimis lo spettatore. In tutta onestà se non fossi stata invitata a vederlo senza soluzione di continuità in una sala cinematografica, e non avessi accettato causa casting furbetto di Santamaria, i troppi elementi di piattezza dell’intreccio, la mancanza di colpi di scena, la poca affezione sviluppata con la vicenda e soprattutto la vocazione troppo generalista della serie non mi avrebbero affatto invogliato a collegarmi di settimana in settimana per gli episodi successivi.

Le cose che restano andrà in onda in prima serata su Rai Uno dal 13 Dicembre. Ve lo consiglio, come blando sonnifero.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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sabato 4 dicembre 2010

Criccintervista - Johnny Knoxville e Chris Pontius, Jackass 3D

Una sala molto candida e accogliente, un perfetto tavolo rotondo, acqua, bicchieri e mentine. Ci aspettiamo che da un momento all'altro ci venga vuotato un secchio di fango in testa o qualcuno alle nostre spalle ci seghi d'improvviso le gambe della sedia. Invece Johnny Knoxville e Chris Pontius arrivano pacati e sorridenti, limitandosi ad un semplice insulto nella nostra lingua, così, per ricordarci che siamo qui per parlare di Jackass.

Si comincia con le curiosità più ovvie mentre Johnny pondera con concentrazione le sue risposte e Chris prende a disegnare fiamme tribali su una cartellina, lanciando un occasionale sguardo spiritato in giro per la sala.

A Jackass è tutto vero e realizzato con l'unico scopo di divertirsi e far divertire. Niente ragionamenti, niente aspirazioni altre. Niente di artistico, a parte, ci tiene a sottolineare Knoxville, qualche pene qua e là.
L'idea è quella di un cartone animato vivente, ispirato all'animazione Warner, come Tom & Jerry e Road Runner. Ma tutto nasce in realtà dal padre di Johnny, proprietario di una fabbrica di pneumatici che amava sorprendere i propri dipendenti con guerre di pistole giocattolo e lassativi nel latte. Un vero modello. Di rimando, alla sua progenie lo stesso Knoxville lascia fare scherzi ma non esperimenti pericolosi. Chi l'avrebbe detto che uno che si lancia da una collina con una moto d'acqua potesse essere un genitore coscienzioso.

Jackass è pura stupidità, chi guarda la serie, ci confessa il suo creatore, lo fa' perché gli ricorda come passa o vorrebbe passare il tempo con i propri amici, ma soprattutto perché è affezionato alla truppa, con la quale s’identifica epidermicamente.

Si gira per sette mesi e mezzo, montando il materiale lungo la strada. Due settimane di lavoro alternate ad altrettante di riposo utili a rifocillare il corpo e la mente dalle continue tensioni di chi è costretto a proteggere costantemente la propria vita dagli attacchi a sorpresa dei colleghi. Noi siamo al sicuro però, ci tengono ad aggiungere, colpi al cuore e ossa rotte sono un regalo che si fanno solo l'un l'altro.
Ci assicurano di vivere lo show anche nella vita, anzi, è proprio a telecamere spente che il gioco si fa duro e le situazioni cominciano a sfuggire di mano. Cioè, più fuori del vulcano-ano? Qualunque cosa sia non la voglio sapere.

Il bilancio del film è in attivo, con il 25% di donne in più in sala rispetto all'ultima uscita (chi vorrebbe perdersi l'opportunità di vedere dei peni in 3D?) e con un trauma cranico, spalla slogata, punti sulla mano, colpo della strega e dente saltato causa dildo-bazooka (un vibratore volante lanciato con un fucile ad aria) sul referto medico di Knoxville.

Ci vuole esercizio, i protagonisti si tengono in forma come possono per far fronte all'impegno fisico. Guardo nei loro occhi e capisco che molto ha a che fare con bicipiti torniti ad alzate di gomito e addominali scolpiti a forza di risate.
Anche la messa a punto dei vari numeri non è sempre semplice, trovare le giuste reazioni alle candid-camera può richiedere molto tempo e dedizione. Per la scena in cui nonno e nipote si succhiano la faccia e si tastano le chiappe sono stati fatti prima alcuni tentativi in un ristorante, sperando che i commensali intervenissero, e poiché invece ognuno continuava a fissare il proprio piatto la banda ha dovuto cambiare strategia, trasferendo la scenetta sulla strada.

Si sostiene che negli anni il format sia migliorato, con più energia e maggior spirito. Dando più spazio a tutti i membri del gruppo, meglio rappresentati rispetto al passato, si permette a Knoxville di rifiatare un po’ e si rinfrescano le idee. Ciò che divertiva un tempo forse ora non diverte più, ma con la maturità dei personaggi hanno acquistato nuovo spessore i contenuti. Non posso credere di aver appena scritto una frase del genere su Jackass...
Chris Pontius ci dice che Steve-O la chiama una malattia progressiva. E questo penso riassuma il tutto effettivamente molto bene.

Arriva poi il momento degli argomenti più impegnati.
Johnny racconta che dopo Jackass 2 ha preso una pausa di tre anni dalla recitazione per produrre alcuni documentari, ma adesso ha intenzione di riarruolarsi sulla nave dei film hollywoodiani. Chris Pontius, che ora è intento nella rappresentazione di un messicano col sombrero, invece si può ammirare in Somewhere di Sophia Coppola.

Non c'è più MTV nel futuro di Jackass, ma se siamo fortunati forse un altro film.
Sull'inutile 3D, mi permetto questo guizzo opinionistico, Knoxville sostiene di essere stato inizialmente scettico, ma quando ha visto i marchingegni costruiti appositamente per lo show così da permettere di continuare a registrare il prodotto come lo si era sempre fatto, senza che il cast dovesse preoccuparsi delle telecamere, ne è stato conquistato. Pontius esce dalla sua trance aggiungendo che finalmente è nata la tecnologia che permette a Jackass di esprimersi nella sua pienezza. Grossi punti interrogativi sui nostri volti, e anche sui vostri se vedrete il film, vi accorgerete che di tridimensionale c'è ben poco, a parte, appunto, qualche pene.


(Cristina Fanti)

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venerdì 3 dicembre 2010

We Want Sex - Made in Dagenham

Atmosfere da Billy Elliot per questa commedia che cosparge di zucchero a velo e confettini colorati un evento storico di portata internazionale, condensando una storia di rivendicazioni sociali in una girandola di situazioni e personaggi che però mancano del mordente necessario per essere considerati speciali.
L’industria cinematografica inglese conferma ancora una volta di amare i film in costume nostalgici e accattivanti, e incarta insieme commedia e dramma con un bel fiocchetto dalle nuance anni 60.

Questa è Dagenham, anno domini 1968. Nella fabbrica della Ford un gruppo di 187 donne cuce rivestimenti per sedili di automobili in uno scantinato al cui interno l’acqua piovana gocciola dal soffitto e per il caldo si lavora in reggiseno, ciarlando come dal parrucchiere e mettendo in imbarazzo qualsiasi collega di sesso maschile irrompa in tale regno. Quando per loro si prefigura un abbassamento del salario, sostenute da un affettuoso sindacalista (Bob Hoskins), questo drappello di cotonate elegge la timida e pacata mamma di famiglia Rita (Sally Hawkins) come propria rappresentante al tavolo delle contrattazioni. Inaspettatamente la piccola donna stravolge le carte in tavola e con un impeto di risolutezza chiede che il salario femminile venga portato al livello di quello degli uomini, dichiarando sé e colleghe ufficialmente in sciopero. La sua determinazione contro lo scetticismo dei loro datori di lavoro, colleghi e persino mariti le aiuterà a lasciare un marchio nella storia d’Inghilterra e aprirà la strada alla legge sull’uguaglianza del trattamento economico due anni dopo.

Il film è un insieme d’illuminazione pittoresca e graziose performance che accecano e nascondono qualsiasi forma di reali ambiguità, conflitto e complicazioni. La scelta non è scavare nel contesto, e questo è chiaro fin dalle prime inquadrature, ma non si può pretendere di mostrare credibilmente la storia se con essa si gioca distratti e veloci. Spariscono per non offendere nessuno ogni amarezza e senso di oppressione generalmente associati alle lotte industriali, e così ci si trincera dietro l’assoluta condivisibilità della tematica centrale; chi se la sentirebbe di essere in disaccordo con il desiderio di uguaglianza? Il consenso facilmente si forma sull’idea che combattere il maschilismo sia un’istanza apolitica.

Mantenendo il tono volutamente poco complicato e solare, e facendo in modo che tutti gli antagonisti abbiano modo di redimersi, ogni sentimento rivoluzionario e potenziale drammatico sono succhiati via, ottenendo così la rappresentazione più leggera che si possa immaginare sul tema del rischiare tutto per una giusta causa.

Sally Hawkins è spinta oltre il limite della naturalezza quando a ogni frase trema d’indignazione con gli occhi gonfi di disprezzo. Del suo talento è fatto molto buon uso invece nelle scene in cui interagisce con il marito.
Questa tendenza all’esasperazione si ripete anche nella sceneggiatura stessa, che sottolinea molto marcatamente temi e chiavi di svolta.
Ogni personaggio ha i suoi quindici minuti di gloria e così tutti sono contenti di questo prodotto: gli attori, perché hanno modo di lavorare e mettersi in mostra; il regista, perché un attore soddisfatto vuol dire il 70% di problemi in meno; e il pubblico, perché è appagato da uno sfarfallio di colori primari. Eccetto che il pubblico non è contento affatto.
Il film è sicuramente piacevole agli occhi ma resta superficiale. Puntando tutto sul divertimento piuttosto che sui saldi ideali seppur presenti nella storia, e così attuali, è reo di populismo e alla ricerca di un facile successo, ma tutto ciò che riuscirà a ispirarvi è solo una flebile risata.

Alcuni punti semi-femministi sono lanciati qua e la ma tuttosommato questa vuole essere ed è un’avventura calda e idealista che sconfigge la dura regola delle difficili battaglie, spesso perse, dei lavoratori.
Alla Festa del Cinema in sala con noi erano presenti alcune delle vere protagoniste della rimostranza. Chissà cosa avranno pensato rispetto a questo gesto che ha definito la loro vita, una generazione, e un po’ il mondo intero, e che ora passa davanti ai loro occhi come una sfilata di capi d’abbigliamento vintage durante la quale poco è mancato che tutto il cast cominciasse a sculettare sulle note di “Hot Chocolate” a la Full Monty.

(Cristina Fanti)

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sabato 27 novembre 2010

Jackass 3D

Bisogna intervistare Johnny Knoxville, la prossima settimana a Roma per presentare Jackass 3D.
Io? Jackass?? Dai, mi ha fatto ridere un totale di due volte in tutta la mia vita ed entrambe quando ero al liceo, sono certamente, abbondantemente, fuori dal suo target.

Non a caso dopo appena mezz’ora di proiezione comincio a intessere un forte carteggio di e-mail dal cellulare.

Per chi non conoscesse il fenomeno, si tratta di uno show televisivo affacciatosi nel 2000 su MTV in cui un drappello di deficienti esegue numeri pericolosi e disumani esperimenti. Una frase emblematica di questo ultimo capitolo della saga (passato al cinema con due precedenti uscite per motivi apparentemente inspiegabili, ma forse se dico “soldi” non ci vado molto lontana) afferma che i cardini della serie sono, perdonate il francese ma rispetto la proprietà intellettuale citando meticolosamente, “merda, vomito e adrenalina”. Non si dicono bugie, questo film, e con disgustata rassegnazione uso questo termine, ne è pieno.

La dinamica del “documentario”, così categorizzato su IMDb, è la seguente: ogni scherzo, ogni prova, ogni candid camera realizzata da questi “somari” (in traduzione letterale il titolo del franchise) inizia con l’esecutore che declina le proprie generalità in caso d’imminente morte e con il titolo dell’impresa che appare in sovraimpressione e buca la terza dimensione.

Abbiamo un ricco carnet di straordinarie esecuzioni delle quali non si poteva proprio fare a meno: lancio della freccetta tramite flautolenza con successiva perforazione di un palloncino gonfiato ad aria e tenuto tra le natiche del partner, sempre tra le natiche una mela mangiata da un maiale (e anche da un uomo), seduta di bunjee jumping dentro un WC chimico usato, cocktail di sudore bevuto dallo stesso uomo della mela e infine un bel plastico di una verde campagna solcata da un trenino con un piccolo vulcano che erutta – il vulcano per farla breve è un ano.
Una succinta lista giusto per nominare i picchi più salienti. Per il resto alcuni stunt sono apprezzabili, salti ed evoluzioni con vari mezzi di locomozione. Le scene d’apertura e di chiusura sono quasi stonate, con ralenti e art direction interessante fra ricerche cromatiche ed effetti speciali ben realizzati. Inutile credo sottolineare che il 3D non ha motivo di essere.

Evitando ogni forma di vana retorica, in soldoni, mi sono annoiata, sono stata disgustata in alcuni passaggi e in generale ho rosicato di aver sprecato il mio tempo e due biglietti della metro per guardare una decina di decerebrati che pensano ci interessi vederli dare sfogo alle loro voglie masochistiche (vere? Architettate per inventarsi un lavoro?).
Può essere che io sia cromosomicamente impossibilitata ad apprezzare le loro gesta, anche se, sono sincera, mi ha strappato un sorriso la prova della flautolenza e del palloncino, impressionante emissione d’aria. Gli uomini in sala dal canto loro hanno dato prova di gradire, ridendo fragorosamente durante quasi tutta la mia via crucis. Diversi, deo gratias.
Non so se si possa ridurre tutto a una mera questione sessista, forse come i protagonisti della pellicola sono affascinati dall’arte del vomito esiste qualcuno, a prescindere dal sesso, a cui piace osservarne la messa in fieri.

Per quanto mi riguarda lo stanziamento di denaro per produrre e distribuire questa merda (per usare un termine che anche i “somari” capiscano) è vergognoso e veramente al di là di ogni mia comprensione.
L’industria non concede scrupoli e la mente è perversa, questa la lezione che porto a casa oggi. Chiederò a Johnny Knoxville la sua opinione a riguardo.

(Cristina Fanti)

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martedì 16 novembre 2010

Io sono con te

Qualsiasi film che prometta di raccontare Maria di Nazareth senza affrontare temi religiosi scatenerà la mia curiosità. Questo è stato per Io sono con te. Con curiosità appunto mi sono approcciata alla sala e ne sono uscita alla fine della proiezione dopo un quarto d’ora di applausi.

Un regista che viene dal documentario, e si vede. Attori presi dalla strada, anzi fuoristrada, nella campagna Tunisina. Al Festival del Cinema di Roma l’abbiamo visto in dialetto Arabo, immagino che al cinema verrà doppiato. Ormai è classicamente noto come il tocco alla Mel Gibson, ed effettivamente continua a funzionare. Certo è che una produzione americana a volte si lascia impossessare da questi folkloristici lussi idiomatici, una italiana mi permetto di dubitarne.

L’assioma di Guido Chiesa è che un bambino, per quanto parzialmente divino, acquista personalità e strumenti relazionali attraverso i propri modelli genitoriali. E d’altra parte Dio non avrebbe affidato a due umani qualsiasi la cura della sua controparte mortale. Di conseguenza appare chiaro che, in un contesto religioso che identifica nella donna il principio della salvezza, l’uomo straordinario che la Bibbia descrive, a prescindere che ci crediate o meno, debba aver avuto una madre fuori dal comune.

La storia della ragazza che ha cambiato il mondo, cita il sottotitolo, e questo è. Seguiamo Maria dalla concezione alla disputa di Gesù con i dottori nel Tempio. Nel mezzo Erode è alla ricerca della progenie dei cieli, e testa tutti i bambini di Betlemme con quiz di logica e domande a trabocchetto molto poco divine. La nostra protagonista affronta le piccoli grandi sfide dell’essere donna in una società primitiva e maschilista, instaurando un forte equilibrato dialogo con il marito, educando il proprio figlio alla libertà, mettendo in discussione i capi saldi dell’Ebraismo per seguire il suo istinto. Il suo istinto, non un’altra religione. Non soffia un alito di Cristianesimo in questa pellicola, per lo meno per chi non ce lo voglia trovare.

Chiesa è molto crudo nei dettagli che sceglie di mostrare, la regia è asciutta ma efficace. Il tempo scorre senza annoiare e questo ai giorni d’oggi lo considero già un grande traguardo.

Le ricerche condotte sul materiale riportano in parte ai Vangeli e in parte a idee originali frutto d’invenzione; soprattutto per quanto riguarda gli ambienti si opta per un mondo policromatico in contrasto con la tradizione cinematografica del genere. I costumi di Valentina Taviani sono sopra ogni cosa uno splendido regalo per gli occhi. Permeano la nostra visione con un girotondo di colori che evidenzia le personalità dei protagonisti in maniera sottile e mai scontata. Curatissimi nella scelta delle stoffe e più in generale semplicemente belli.

Naturalmente il fascino di un’opera del genere risiede anche nelle riflessioni che genera. Per quanto mi sembra di aver reso abbastanza chiaro che ho molto gradito questo lavoro, sia per la realizzazione che per le idee interessanti, c’è chi non è d’accordo con me. Cito dal sito mirabilissimo100.wordpress.com:

Guido Chiesa non conosce le Sacre Scritture, la storia e la religione del popolo ebraico, quindi il suo racconto non solo è falso ma anche blasfemo e contro la Sacra Famiglia. 
Falsificare i Vangeli è un gravissimo peccato, mentre i vangeli inventati da uomini atei non servono a nulla, anzi portano all’inferno, il Vangelo, la Parola di Dio, la Sacra Bibbia sono la Via, la Verità, la Vita eterna e la Salvezza.
Chi racconta falsità verrà condannato; “Vi assicuro che nel giorno del giudizio tutti dovranno render conto di ogni parola inutile che hanno detto perché saranno le vostre parole che vi porteranno a essere condannati o a essere riconosciuti innocenti”, Vangelo secondo Matteo: 12, 36-37.

Attenderò dunque, insieme a Guido Chiesa e alla troupe del film, il nostro Armageddon.

(Cristina Fanti)

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lunedì 15 novembre 2010

Dalla vita in poi

Di solito diffido del cinema italiano, e ne sono contenta. Perché quando mi capitano sott’occhio quelle rare gemme, rare è la parola chiave, sono sinceramente sorpresa e rincuorata.

Dalla vita in poi è un film troppo poco socialmente impegnato, troppo poco lento, troppo squisitamente romantico, troppo ben diretto, anche, per essere italiano. Eppure lo è, genuinamente italiano. La storia è vera, il regista ha incontrato la protagonista, amante di Manfredi che braccava i set in cui anni fa lavoravano insieme, e ci è diventato amico.

Lei, Katia (Cristiana Capotondi) è affetta da sclerosi multipla, nel corpo, non nell’animo. Intrattiene un rapporto epistolare con un detenuto, 30 anni per omicidio, Danilo (Filippo Nigro) e si innamora di lui. Semplicemente, candidamente, e con la forza di un’eroina di Jane Austen.

La Capotondi dice di essersi affezionata al progetto perché conteneva qualcosa di epico seppure all’interno di una marcata contemporaneità. Ha ragione. La malattia e la detenzione sono forze sovraumane che ostacolano l’amore di queste due persone che nonostante tutto continuano a crederci, con caparbietà ed ironia. Una passione assai vintage, per così dire, in una realtà molto poco passionale.

Malattia e detenzione, in fondo questa pellicola qualcosa di sociale ce l’ha; si, ma con leggerezza. Il regista sottolinea che non sta raccontando un fatto di cronaca e non vuole fare denuncia, bensì dipingere dei personaggi. Ci riesce benissimo. Complice una sceneggiatura praticamente perfetta, equilibrata tra amarezza e dolci baci, carica di ritmo come un cuore che ama, mai sdolcinata come chi lavora in prigione. Danzando fra presente e passato (prossimo) disegna piccole scene che funzionano da sole. La musica e un buon montaggio le condiscono di una piccante adrenalina. E soprattutto incanta quell’ironia che fa risplendere la protagonista come un sole di Dicembre, lucente ma fresco. Sagaci i riferimenti alla realtà quotidiana, come la proclamata volontà di chiamare Striscia la Notizia, o l’intera rosa dell’AS Roma, anche questa un po’ vintage, che si allena a Trigoria.

La regia sceglie di non far vedere molto la sedia a rotelle su cui Katia è costretta, gioca su primi piani interessanti e non ha paura di scoprire, seppur senza sottolineare, la profondità dei suoi personaggi.

Gli attori sono per lo più spontanei, la romanità li aiuta, e tutto sommato si lasciano apprezzare. E’ una buona idea tenere Filippo Nigro in mutande per metà film. Solo Pino Insegno nella parte del sovraintendente di polizia mi ha lasciato perplessa. Al di là che un agente che parla romano in dizione non l’ho mai sentito, forse ci ha troppo abituati a vederlo nei panni di se stesso, e in divisa mi sembra quasi che ci stia prendendo in giro.

Decisamente un film da provare per chi spera ancora che il cinema italiano risorga dalle sue ceneri.
Delicato, come una scritta su uno specchio appannato.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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giovedì 11 novembre 2010

The Social Network

Uso facebook dal 2006 con una convinzione che possiamo definire religiosa. Almeno fino ad oggi. In effetti in questo momento non mi trovo più molto a mio agio tra le sue interfacce. Mark Zuckerberg non esce dipinto al meglio da The Social Network, e con lui è diventato un tantino inquietante tutto ciò che lo circonda.

Un film dal classico stampo americano. Narrazione convenzionale, humor asciutto, belle ragazze e Justin Timberlake.
Ma parliamo di David Fincher, per cui la narrazione è spezzata e poi ricucita da salti temporali che la rendono ritmata ma fluida, e interessante. Lo humour ti colpisce quando meno te lo aspetti senza essere mai ovvio, in agguato ad ogni angolo, soprattutto alle svolte più amare. Le belle ragazze sono cazzute nel New England e puttane in California. Justin Timberlake firma una performance inaspettata.

La storia è nota, è recente, e la sanno tutti, come chi ha vinto l’ultimo campionato. Il ragazzo in preda ad una sbronza, appena lasciato dalla fidanzata, si lancia per ripicca nel mondo che conosce meglio, quello informatico, e crea un sito insignificante e maschilista sul quale si possono votare le foto delle ragazze del suo campus. Questo sito nel giro di pochi giorni diventerà quello che conosciamo, dopo che il suo creatore avrà rubato l’idea di base per allargarne la portata da alcuni ragazzi della sua scuola. Perché diciamocelo, lo ha fatto. Ed è per questo che i ragazzi di cui sopra, i gemelli Winklevoss, hanno vinto la causa che gli hanno intentato per frode. “Se foste i veri creatori di facebook avreste inventato facebook” tuona sarcastico e rilassato Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg) dalla comoda poltrona di uno studio legale. Ed è proprio questo il lato intrigante della vicenda. Che non ce n’è una, ce ne sono tre.

Aaron Sorkin, sceneggiatore straordinario (consegna la sua prima stesura della lunghezza di 165 pagine, eccezionalmente approvata subito per le riprese) e David Fincher hanno riconosciuto l’universalità, sia territoriale che temporale, dei temi da loro trattati, così per differenziarla da un classico dramma, diciamo Shakespeariano hanno puntato tutto sul concetto che la verità non è univoca. Hanno per così dire attinto dalla tavolozza a 256 colori invece che dalla cartella in scala di grigi. “Piuttosto che decidere quale fosse vero e quale no, ho pensato che la cosa migliore fosse drammatizzare tutti i conflitti narrativi” dice Sorkin, “inoltre l’idea di una serie di realtà possibili sembrava molto più in linea con facebook stesso, e cioè con le molteplici possibilità di mostrare un concetto molto personale di verità”. Inseguire la giustizia non è importante per questo progetto, bensì lo è la ricerca del dettaglio, sia attoriale che scenografico, per ricreare gli eventi ed assemblare i fatti come scopo ultimo del film.

La maggior parte delle pellicole biografiche segue uno svolgimento lineare, in questo caso invece parlavamo di storia frammentata. Un lungo flashback che parte dal presente delle due battaglie legali che vedono Mark come protagonista. Un uno contro tutti in cui la parola di ognuno è buona come il pane e un reperto e-mail vale come l’oro. Un processo meno incentrato nello stabilire le colpe e più sul determinare il preciso grado di carognaggine di Zuckerberg. Quale esso sia poi resta soggettivo, perché alla fine il giovane milionario non ne esce né diffamato come avido e stupido, pronto a sacrificare quei pochi amici che ha per arrivare al successo (che poi più che di denaro il suo è desiderio di rivalsa sociale), né esaltato come mito dell’anticonformismo. Gli autori proseguono anche in questo caso sul loro percorso, ben più pericoloso, per i produttori soprattutto, cercando di evitare delineazioni nette. Mark Zuckerberg sarà molte cose per ognuno di noi, ma per il mondo nel suo complesso è sicuramente la vittima di un disagio sociale che è in grado di trasformare in un codice informatico d’avanguardia. E’ un hacker, un antieroe, un anarchico che cerca di scontrarsi con le persone che hanno reso il suo mondo infelice, che ad ogni passo che fa per essere accettato finisce per far male a qualcuno, un tagliatore di ponti professionista. In nessun momento del film lo spettatore è portato a simpatizzare per lui, non c’è nessuna scena in cui il ragazzo si butta in terra e si raggomitola tremando perché si sente tanto solo. Non sono permesse distrazioni dal soggetto, che sono i fatti, non i sentimenti.
Per quanto riguarda le reazioni di carattere più intimo, quelle poi derivano involontariamente dalle circostanze, e il nostro protagonista, forse profondamente solo, o forse no, ci saluterà in compagnia di un computer e della sua pagina facebook.

L’assioma è quello di fotografare una società avanzata e interconnessa in cui i nostri profili e i nostri blog ci definiscono di più delle azioni che facciamo in carne ed ossa, ma che resta chiusa, ingabbiata da pregiudizi vecchi di secoli su come i nostri eroi e le loro nemesi dovrebbero apparire, parlare e agire. Infatti Mark Zuckerberg è un ragazzo che ce l’ha fatta, l’eroe della nostra storia, eppure resterà irreversibilmente instabile e fuori posto.

Tanti film mostrano che il denaro dà alla testa e trattano dell’avidità come motore del mondo, ma in fondo quante persone possono identificarsi con un ricco magnate? The Social Network stravolge le carte in tavola nel presentarci esattamente un ricco magnate, ma piagato da qualcosa con cui tutti possiamo relazionarci: un costoso – in termini umani - desiderio di accettazione che si tramuta in una cieca ambizione di scalata sociale.

Eisemberg ruba la scena a tutti, persone ed oggetti compresi, lanciando sguardi intorno a tavoli come se le persone che lo circondano fossero tutte imbecilli, sparando commenti caustici che un po’ fanno sentire tali anche noi, macinando parole alla velocità della luce, muovendosi, interagendo, e persino stando fermo come se al mondo esistesse solo lui. Strepitoso. Ci ha raccontato come la scena di apertura sia stata girata 99 volte. Ciò avrebbe probabilmente condannato alla pazzia qualsiasi attore, invece lui ha continuato a lavorare alla sua performance ciak dopo ciak e questo molto onestamente si percepisce, elevandolo a qualche prestigioso premio nella prossima award season.
Il cast tutto ben si adegua a questo standard, da Andrew Garfield, il migliore amico tradito, la parte più emotiva del film, un personaggio in 3D nel senso interiore; a Timberlake, la versione con codice postale californiano di Zuckerberg, astuto imprenditore e gran pezzo di merda, che si fonde nel suo ruolo spogliandosi della vecchia immagine di menestrello per teenager con coraggio e umiltà, provando che forse l’attore può farlo davvero. Certo gli servirà qualche altro colpo ben assestato per convincercene fino in fondo, ma questo è il prezzo da pagare per chi cambia carriera.

Il successo maggiore di The Social Network sta nel catturare la febbre della nascita di facebook implicando contemporaneamente che questo ha generato molti soldi e un effimero clamore ma non molto di più. Piena di rivalità, invidia e di orgogliosi mezzi geni questa storia ci rivela, alla fine, cosa? Molta solitudine. Sorkin e Fincher hanno ben amalgamato eccitazione e scalpore con un persistente, scuro pessimismo, in un film di persone che digitano davanti a computer e parlano dentro stanze, ma pieno di suspance come se fosse un vero e proprio thriller.

(Cristina Fanti)

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mercoledì 10 novembre 2010

I want to be a Soldier

Strano ma vero, nella loro categoria Valeria Marini è un’attrice migliore di Monica Bellucci. Lo so, neanche io lo credevo possibile, ma è così. Vi chiedo uno sforzo, me ne rendo conto, ma se riguardaste Matrix Reloaded, e lo comparaste ad I want to be a Soldier, in versione originale, capirete di che parlo.
Valeria Marini non sospira, parla. Valeria Marini non ha grande mobilità facciale per via di Mr. Botulino e della sua allegra famiglia, ma vi è un accenno di espressione. Valeria Marini ha un forte accento italiano, ma almeno parla qualcosa di simile all’inglese. Mi ha colpito, non posso dire altrimenti.

Non solo per averla schierata fra gli interpreti (sorvoliamo sul fatto che ne sia produttrice) il film è coraggioso.

Una storia delicata, di violenza, a tratti anche d’odio, di dipendenza, d’invisibilità. Parliamo di un bambino, un bel bambino, Alex. Delicato, mansueto, sognatore e studioso, che complice un edulcorato Sergente Hartman (parto della sua fantasia e “merito” di un’incombente televisione, simbolo della mala-educazione) si trasforma nel mignon di un naziskin.
Le immagini di guerra e di torture che la TV trasmette senza limiti scorrono sui suoi primi piani, proiettategli addosso e riflesse in tutta la sua stanza, dove si chiude a chiave, consapevole della sua disobbedienza. Graffiano quelle pareti di gomma che bendano gli occhi dei suoi genitori.
Il tracollo è immediato, e l’impotenza delle istituzioni, tutte, è denunciata senza mezzi termini, fino a costringermi ad ancorarmi alla sedia del cinema per non scattare fin dentro allo schermo e urlare contro questa madre distratta, questo padre naive e questa scuola impotente, prendere un bastone e colpire quel trasmettitore di fango e infamità fino a farlo esplodere con dovizia di scintille.

La regia non solo è molto curata, ma davvero raffinata, nei piani sequenza che ci costringono inermi di fronte alla cruda realtà e negli articolati balletti di macchina e attori, dialoghi che si accavallano su più piani scenografici, colori, angolazioni e luci interessantemente espressive.

Sottile e acuta, ma soprattutto molto funzionale, la figura dell’amico immaginario del nostro piccolo Hitler. Quando lo conosciamo è un astronauta, candido consigliere che lo aiuta con i compiti, a cena lo persuade dell’importanza di mangiare verdure per diventare grandi uomini, d’età, di statura e di mente, e gli racconta le meraviglie del cosmo, giocherellando con una leggera pochette da taschino bianca. Con il crescere della morbosa fascinazione per la guerra nella mente di Alex, e nella sua stanza con un repentino cambio di arredamento sostenuto da suo padre ma disapprovato dalla madre, l’immaginario stesso del film evolve e il candido astronauta, indossata una divisa militare con un tappeto di medaglie al merito e fumando sigari a tutto spiano, strepita a pochi centimetri dal suo orecchio elogiando impietosità, vendetta, disobbedienza, e sventolando vittorioso un piccolo fazzoletto rosso. Signore, si Signore.

Alex si rade i capelli e parla dell’odore di Napalm al mattino. Fergus Riordan ci regala una performance adulta, e non sono da meno gli altri interpreti.

Il lavoro di martellamento psicologico è chirurgico e indolore, così a un tratto mi trovo a provare antipatia per questo bambino che tenta persino di affogare quel fratello minore che gli ha tolto l’attenzione di mamma e papà; e disprezzo per questi ultimi, che nonostante i ripetuti appelli dello psicologo che segue Alex non riescono a vedere oltre le loro dispute matrimoniali. Non so se il regista volesse questo da me.

Ciò che ho sentito negli 88 minuti in cui la pellicola ha camminato mi ha portato però a riflettere su cosa voglia dire mettere al mondo un’anima ai tempi d’oggi. Questo sono sicura invece che lo volesse.

Vincitore del premio Alice nella città Under 12 al Festival del Film di Roma 2010, non è certamente solo un film per bambini.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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sabato 6 novembre 2010

Last Night

L’attrice che meno stimo al mondo, 90 minuti, una prospettiva terrificante. Le luci si spengono. Ma non è così male. Almeno il digrignamento dei denti non è vistoso come al solito.

Last Night, un film in cui Keira Knightley non indossa un corsetto e Sam Worthington non ha la pelle blu. Eva Mendez… Beh lei fa quello che le riesce meglio.

Una coppia di giovani sposata da quattro anni, i primi due, è minacciata dall’ingresso in scena di un sederotto prosperoso, quello della cubana. Joanna (Knighley) comincia a sospettare dell’infedeltà di Michael (Worthington) durante una cena di lavoro, quello di lui. Perché lei fa la scrittrice, ed è un tantino persa in questo mondo dove l’arte non si mangia. L’indomani Michael parte per un convegno insieme ad alcuni colleghi, inclusa Laura (Mendez), la pietra dello scandalo.

Da questo momento in poi la regista, sceneggiatrice di The Jacket, per cui ha la mia stima, e amica della Knightley, per cui la perde, segue le vicende che si dispiegano nel corso di una lunga notte a Philadelphia, dove si trova Michael, e a New York, dove è rimasta Joanna.

Quest’ultima durante un blocco creativo nella mattinata dello stesso giorno era scesa a prendere un caffè e aveva incontrato per caso un suo vecchio amante. Lui, prestante e francese (Guillaume Canet), non tanto per caso l’aveva pedinata perché, in città per sole altre 24 ore, sentiva il bisogno di rivederla. Sembrerebbe che il sentimento sia ricambiato, perché i due si danno appuntamento per un disagevole aperitivo che si trasformerà in molto altro.

Il tema in cui questo film si diverte a girare il coltello è quanto mai banale ma sempreverde. Lo slogan stampato sulla locandina recita: a volte quello che desideri è tutto quello che non puoi avere. Dalla conferenza stampa è emerso che una frase più consona sarebbe: è meglio tradire con il corpo o con la mente?
Non sono d’accordo che i personaggi desiderino ciò che non possono avere. Hanno al contrario una concreta possibilità di avere esattamente quello che vogliono, esplorano a fondo questa possibilità, vi ci sguazzano anche, e alla fine decidono con cognizione di causa. Cosa decidono lo lascio scoprire a voi, ammesso che dopo un’ora e trenta di dialoghi ancora vi interessi.

Non sono scritti male, anzi, al contrario, per essere un film così statico tiene sufficientemente aperto l’occhietto dello spettatore assonnato, ma sono tante parole. Tante, tante parole. Molti primi piani. E tante parole. Il maggior traguardo a cui questo meccanismo porta è l’ottenere una sorta di suspance, una corda tesa fra le due coppie che sono sempre sul punto di fare qualcosa, sul punto di scattare a molla, sul punto di sferrare il colpo fatale al cuore dell’altro, non con un pugnale, ma con un’arma che ferisce anche di più. Un thriller romantico, un Hitchock in salsa Bullock.

La riflessione che ne deriva offre spunti interessanti, le atmosfere newyorkesi sono molto godibili, gli attori credibili, ma una storia, un po’ come in un saggio invece che in un’opera narrativa, stringendo stringendo, non c’è.

(Cristina Fanti)

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sabato 18 settembre 2010

Mordimi - Vampires Suck

Mi trovo in difficoltà. Scrivere una recensione di Mordimi è un po’ come esprimere un parere gastronomico sull’enterogermina. Non sa di niente.

Il film dovrebbe essere una parodia sul genere dei vari Scary Movie, Epic Movie, Hot Movie, Disaster Movie e tutti quei "Qualcosa Movie" che vi vengono in mente. Infatti, per coincidenza, è scritto e diretto dagli stessi geniacci. Alla loro migliore prova per quanto mi riguarda, non perché il risultato sia buono, ma perché perlomeno è solo incredibilmente noioso invece che insopportabilmente irritante. Questa volta, per portare una ventata di freschezza, centrano il loro mirino su una saga in particolare, invece che su una categoria narrativa in senso lato.

E così rubano la trama di Twilight e producono una copia più economica e più insulsa dei tre film della saga centrifugati in 82 minuti. Possiamo anche dirlo, già i film originali non erano un granché. Non c’era veramente nessun bisogno di farne un sunto. Stephanie Mayer dovrebbe probabilmente fare causa.

E’ imbarazzante vedere una commedia languire nel silenzio per un’ora e mezza, con battute lanciate in una platea che è un vuoto cosmico. In fondo mi dispiace che Twilight non sia riuscito ad ottenere una parodia migliore. Molte delle frecciate del film consistono nel menzionare una serie di reality show, quando non sono completamente devote a sottolineare la loro rilevanza rispetto all’universo a cui si ispirano, come se gli “autori” non capissero che per il pubblico questo concetto sia già assodato. Ad eccezione forse di chi è andato in bagno ed è poi rientrato per errore nella sala sbagliata. Un continuo rimarcare e spiegare, rompendo la quarta parete. Esempio: Jacob perché sei sempre senza maglietta? – E’ scritto nel contratto – Jacob mostra il contratto, sguardo in macchina. Inesorabile gelo.

Ho contato tre risate. Quando nella caffetteria accanto ai Sullen (i nostri Cullen) appaiono i tipi di Jersey Shore tutti oliati e in posa. Quando Becca (si, i giochi sui nomi sono la parte peggiore) dice di aver capito cosa sia Edward in realtà, ben vestito, bianco cadaverico e sessualmente astinente, è un Jonas brother. Quando Edward dice a Becca che anche solo l’odore del suo fiato è il Paradiso e lei gli pianta una flautolenza in faccia fancendolo volare giù dalla finestra, come il miglior Fantozzi. Preso il pubblico per sfinimento alla fine sulla puzzetta si rilassa e si fa due ghigni.

Devo ammettere che le scenografie e i costumi sono calzanti e Jenn Proske fa un’ottima imitazione di Kristen Stewart che parla guardando per terra, sbatte le ciglia e si morde le labbra. Se solo le avessero dato qualcosa di divertente con cui destreggiarsi.

L’impressione generale è che i timonieri di questa iniziativa fossero troppo sfaticati per qualsiasi cosa che non fosse una copia scena per scena dell’originale, quando focalizzandosi di più su un’effettiva satira dell’universo di Twilight avrebbero ottenuto, con un po’ di sagacia, forse, qualcosa di davvero divertente.

Credo abbiano cercato di prendere in giro Twilight senza far arrabbiare i fan e con questo intendo che hanno semplicemente mostrato loro, di nuovo, i film che avevano già gradito.

(Cristina Fanti)

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Splice

Non sono la più grande fan di Adrian Brody ma devo dare a Cesare quel che è di Cesare, quando sullo schermo c’è lui sono pervasa da un improvviso, irreversibile senso di attrazione e di pace. Ogni volta mi chiedo come ci riesca. Non fa eccezione questa pellicola, in cui interpreta uno scienziato dal gilet di Willy Wonka a cui piace ascoltare musica rock ed in larga misura fare sesso.

Insieme alla sua compagna è a capo di un progetto di splicing, ovvero gioca a tetris con il DNA di diverse specie animali. Quando la loro ricerca comincia a farsi concreta e la società per cui lavorano ha bisogno di spingere sull’acceleratore per ottenere finanziamenti, Brody e la sua bella (Sarah Polley), in gran segreto, aggiungono alla loro mistura un codice genetico tutto speciale: quello umano. E così sorpresa sorpresa nasce Dren, che all’inizio rassomiglia ad una coscia di Chianina e via via invecchia con una rapidità esponenziale, diventando infine un incrocio fra una bella topa ed una gallina gigante, realizzata comunque con effetti digitali lodevoli, efficaci ma discreti. Dren è un ragazza un tantino irascibile, ha la forza muscolare di Hulk ed una coda dotata di artiglio degna del re scorpione. Attraversando velocemente tutte le fasi della vita, dall’infanzia alla maturità, passando per l’adolescenza, Dren sviluppa un rapporto complesso e sfaccettato con i suoi “genitori”, che ricambiano naturalmente con delle attenzioni altrettanto peculiari,vista la natura non proprio consueta della loro figlioccia.

Un thriller dunque, ma anche una delicata storia di coppia. Siamo davanti ad uno stufato a base di Frankenstain steso su un letto di Rosemary’s baby, farcito con una buona regia ed un pizzico di originalità (che non guasta!).

I temi della gravidanza e del saper essere genitori sono sottilmente inseriti qua e là lungo il nostro viaggio. Elsa (Polley) scottata da un’infanzia difficile riversa sul suo mostriciattolo tutte quelle cure ossessive che non ha mai ricevuto. Clive (Brody) chiuso nelle sue preoccupazioni di carattere etico vive e lascia vivere, con un atteggiamento molto pragmatico che porterà la coppia a scontrarsi. Nessuno dei due ha una connotazione nettamente positiva, ed è questa la caratteristica che maggiormente li rende autentici e dona al film quel tocco di sincerità che porta una necessaria ventata di freschezza al panorama del thriller contemporaneo. Riusciamo infatti a fare il tifo per loro e contemporaneamente a detestarli, toccando delle punte di disgustata incredulità per il loro orribile sfacciato oltrepassare alcuni capisaldi di moralità.

Delphine Chaneac lavora come un’attrice del muto, in un gioco di sguardi e piccoli tic del corpo che riescono nel difficile compito di creare una connessione emotiva fra il pubblico ed il suo inusuale personaggio senza risultare ridicola o smielata.

La mano del regista è sicura e fluida e si muove senza pause né monotonia in quegli ambienti dalla luce malata, come laboratori e stalle abbandonate, in cui si svolge la storia.

Quello che per larga parte è un ottimo prodotto, sebbene dichiaratamente di genere realizzato con intelligenza e sapientemente mantenuto oltre il livello della banalità, subisce purtroppo nella sua ultima parte un cambiamento di rotta verso atmosfere più tradizionali. Si passa da un brillante thriller cerebrale ad un più tipico horror “corri più che puoi” (con shoccante risvolto erotico) dall’elevato fattore di prevedibilità che stride, anche se non disturba.

Splice non ha paura né di abbracciare picchi di sentimentalismo verso la creatura protagonista né di portare i suoi personaggi e spettatori in territori terribilmente inquietanti. Contrariamente alla maggior parte dei film horror statunitensi dal budget sostenuto, siamo davanti ad un raro esempio di come si può fare bene.

(Cristina Fanti)

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