sabato 27 novembre 2010

Jackass 3D

Bisogna intervistare Johnny Knoxville, la prossima settimana a Roma per presentare Jackass 3D.
Io? Jackass?? Dai, mi ha fatto ridere un totale di due volte in tutta la mia vita ed entrambe quando ero al liceo, sono certamente, abbondantemente, fuori dal suo target.

Non a caso dopo appena mezz’ora di proiezione comincio a intessere un forte carteggio di e-mail dal cellulare.

Per chi non conoscesse il fenomeno, si tratta di uno show televisivo affacciatosi nel 2000 su MTV in cui un drappello di deficienti esegue numeri pericolosi e disumani esperimenti. Una frase emblematica di questo ultimo capitolo della saga (passato al cinema con due precedenti uscite per motivi apparentemente inspiegabili, ma forse se dico “soldi” non ci vado molto lontana) afferma che i cardini della serie sono, perdonate il francese ma rispetto la proprietà intellettuale citando meticolosamente, “merda, vomito e adrenalina”. Non si dicono bugie, questo film, e con disgustata rassegnazione uso questo termine, ne è pieno.

La dinamica del “documentario”, così categorizzato su IMDb, è la seguente: ogni scherzo, ogni prova, ogni candid camera realizzata da questi “somari” (in traduzione letterale il titolo del franchise) inizia con l’esecutore che declina le proprie generalità in caso d’imminente morte e con il titolo dell’impresa che appare in sovraimpressione e buca la terza dimensione.

Abbiamo un ricco carnet di straordinarie esecuzioni delle quali non si poteva proprio fare a meno: lancio della freccetta tramite flautolenza con successiva perforazione di un palloncino gonfiato ad aria e tenuto tra le natiche del partner, sempre tra le natiche una mela mangiata da un maiale (e anche da un uomo), seduta di bunjee jumping dentro un WC chimico usato, cocktail di sudore bevuto dallo stesso uomo della mela e infine un bel plastico di una verde campagna solcata da un trenino con un piccolo vulcano che erutta – il vulcano per farla breve è un ano.
Una succinta lista giusto per nominare i picchi più salienti. Per il resto alcuni stunt sono apprezzabili, salti ed evoluzioni con vari mezzi di locomozione. Le scene d’apertura e di chiusura sono quasi stonate, con ralenti e art direction interessante fra ricerche cromatiche ed effetti speciali ben realizzati. Inutile credo sottolineare che il 3D non ha motivo di essere.

Evitando ogni forma di vana retorica, in soldoni, mi sono annoiata, sono stata disgustata in alcuni passaggi e in generale ho rosicato di aver sprecato il mio tempo e due biglietti della metro per guardare una decina di decerebrati che pensano ci interessi vederli dare sfogo alle loro voglie masochistiche (vere? Architettate per inventarsi un lavoro?).
Può essere che io sia cromosomicamente impossibilitata ad apprezzare le loro gesta, anche se, sono sincera, mi ha strappato un sorriso la prova della flautolenza e del palloncino, impressionante emissione d’aria. Gli uomini in sala dal canto loro hanno dato prova di gradire, ridendo fragorosamente durante quasi tutta la mia via crucis. Diversi, deo gratias.
Non so se si possa ridurre tutto a una mera questione sessista, forse come i protagonisti della pellicola sono affascinati dall’arte del vomito esiste qualcuno, a prescindere dal sesso, a cui piace osservarne la messa in fieri.

Per quanto mi riguarda lo stanziamento di denaro per produrre e distribuire questa merda (per usare un termine che anche i “somari” capiscano) è vergognoso e veramente al di là di ogni mia comprensione.
L’industria non concede scrupoli e la mente è perversa, questa la lezione che porto a casa oggi. Chiederò a Johnny Knoxville la sua opinione a riguardo.

(Cristina Fanti)

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martedì 16 novembre 2010

Io sono con te

Qualsiasi film che prometta di raccontare Maria di Nazareth senza affrontare temi religiosi scatenerà la mia curiosità. Questo è stato per Io sono con te. Con curiosità appunto mi sono approcciata alla sala e ne sono uscita alla fine della proiezione dopo un quarto d’ora di applausi.

Un regista che viene dal documentario, e si vede. Attori presi dalla strada, anzi fuoristrada, nella campagna Tunisina. Al Festival del Cinema di Roma l’abbiamo visto in dialetto Arabo, immagino che al cinema verrà doppiato. Ormai è classicamente noto come il tocco alla Mel Gibson, ed effettivamente continua a funzionare. Certo è che una produzione americana a volte si lascia impossessare da questi folkloristici lussi idiomatici, una italiana mi permetto di dubitarne.

L’assioma di Guido Chiesa è che un bambino, per quanto parzialmente divino, acquista personalità e strumenti relazionali attraverso i propri modelli genitoriali. E d’altra parte Dio non avrebbe affidato a due umani qualsiasi la cura della sua controparte mortale. Di conseguenza appare chiaro che, in un contesto religioso che identifica nella donna il principio della salvezza, l’uomo straordinario che la Bibbia descrive, a prescindere che ci crediate o meno, debba aver avuto una madre fuori dal comune.

La storia della ragazza che ha cambiato il mondo, cita il sottotitolo, e questo è. Seguiamo Maria dalla concezione alla disputa di Gesù con i dottori nel Tempio. Nel mezzo Erode è alla ricerca della progenie dei cieli, e testa tutti i bambini di Betlemme con quiz di logica e domande a trabocchetto molto poco divine. La nostra protagonista affronta le piccoli grandi sfide dell’essere donna in una società primitiva e maschilista, instaurando un forte equilibrato dialogo con il marito, educando il proprio figlio alla libertà, mettendo in discussione i capi saldi dell’Ebraismo per seguire il suo istinto. Il suo istinto, non un’altra religione. Non soffia un alito di Cristianesimo in questa pellicola, per lo meno per chi non ce lo voglia trovare.

Chiesa è molto crudo nei dettagli che sceglie di mostrare, la regia è asciutta ma efficace. Il tempo scorre senza annoiare e questo ai giorni d’oggi lo considero già un grande traguardo.

Le ricerche condotte sul materiale riportano in parte ai Vangeli e in parte a idee originali frutto d’invenzione; soprattutto per quanto riguarda gli ambienti si opta per un mondo policromatico in contrasto con la tradizione cinematografica del genere. I costumi di Valentina Taviani sono sopra ogni cosa uno splendido regalo per gli occhi. Permeano la nostra visione con un girotondo di colori che evidenzia le personalità dei protagonisti in maniera sottile e mai scontata. Curatissimi nella scelta delle stoffe e più in generale semplicemente belli.

Naturalmente il fascino di un’opera del genere risiede anche nelle riflessioni che genera. Per quanto mi sembra di aver reso abbastanza chiaro che ho molto gradito questo lavoro, sia per la realizzazione che per le idee interessanti, c’è chi non è d’accordo con me. Cito dal sito mirabilissimo100.wordpress.com:

Guido Chiesa non conosce le Sacre Scritture, la storia e la religione del popolo ebraico, quindi il suo racconto non solo è falso ma anche blasfemo e contro la Sacra Famiglia. 
Falsificare i Vangeli è un gravissimo peccato, mentre i vangeli inventati da uomini atei non servono a nulla, anzi portano all’inferno, il Vangelo, la Parola di Dio, la Sacra Bibbia sono la Via, la Verità, la Vita eterna e la Salvezza.
Chi racconta falsità verrà condannato; “Vi assicuro che nel giorno del giudizio tutti dovranno render conto di ogni parola inutile che hanno detto perché saranno le vostre parole che vi porteranno a essere condannati o a essere riconosciuti innocenti”, Vangelo secondo Matteo: 12, 36-37.

Attenderò dunque, insieme a Guido Chiesa e alla troupe del film, il nostro Armageddon.

(Cristina Fanti)

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lunedì 15 novembre 2010

Dalla vita in poi

Di solito diffido del cinema italiano, e ne sono contenta. Perché quando mi capitano sott’occhio quelle rare gemme, rare è la parola chiave, sono sinceramente sorpresa e rincuorata.

Dalla vita in poi è un film troppo poco socialmente impegnato, troppo poco lento, troppo squisitamente romantico, troppo ben diretto, anche, per essere italiano. Eppure lo è, genuinamente italiano. La storia è vera, il regista ha incontrato la protagonista, amante di Manfredi che braccava i set in cui anni fa lavoravano insieme, e ci è diventato amico.

Lei, Katia (Cristiana Capotondi) è affetta da sclerosi multipla, nel corpo, non nell’animo. Intrattiene un rapporto epistolare con un detenuto, 30 anni per omicidio, Danilo (Filippo Nigro) e si innamora di lui. Semplicemente, candidamente, e con la forza di un’eroina di Jane Austen.

La Capotondi dice di essersi affezionata al progetto perché conteneva qualcosa di epico seppure all’interno di una marcata contemporaneità. Ha ragione. La malattia e la detenzione sono forze sovraumane che ostacolano l’amore di queste due persone che nonostante tutto continuano a crederci, con caparbietà ed ironia. Una passione assai vintage, per così dire, in una realtà molto poco passionale.

Malattia e detenzione, in fondo questa pellicola qualcosa di sociale ce l’ha; si, ma con leggerezza. Il regista sottolinea che non sta raccontando un fatto di cronaca e non vuole fare denuncia, bensì dipingere dei personaggi. Ci riesce benissimo. Complice una sceneggiatura praticamente perfetta, equilibrata tra amarezza e dolci baci, carica di ritmo come un cuore che ama, mai sdolcinata come chi lavora in prigione. Danzando fra presente e passato (prossimo) disegna piccole scene che funzionano da sole. La musica e un buon montaggio le condiscono di una piccante adrenalina. E soprattutto incanta quell’ironia che fa risplendere la protagonista come un sole di Dicembre, lucente ma fresco. Sagaci i riferimenti alla realtà quotidiana, come la proclamata volontà di chiamare Striscia la Notizia, o l’intera rosa dell’AS Roma, anche questa un po’ vintage, che si allena a Trigoria.

La regia sceglie di non far vedere molto la sedia a rotelle su cui Katia è costretta, gioca su primi piani interessanti e non ha paura di scoprire, seppur senza sottolineare, la profondità dei suoi personaggi.

Gli attori sono per lo più spontanei, la romanità li aiuta, e tutto sommato si lasciano apprezzare. E’ una buona idea tenere Filippo Nigro in mutande per metà film. Solo Pino Insegno nella parte del sovraintendente di polizia mi ha lasciato perplessa. Al di là che un agente che parla romano in dizione non l’ho mai sentito, forse ci ha troppo abituati a vederlo nei panni di se stesso, e in divisa mi sembra quasi che ci stia prendendo in giro.

Decisamente un film da provare per chi spera ancora che il cinema italiano risorga dalle sue ceneri.
Delicato, come una scritta su uno specchio appannato.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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giovedì 11 novembre 2010

The Social Network

Uso facebook dal 2006 con una convinzione che possiamo definire religiosa. Almeno fino ad oggi. In effetti in questo momento non mi trovo più molto a mio agio tra le sue interfacce. Mark Zuckerberg non esce dipinto al meglio da The Social Network, e con lui è diventato un tantino inquietante tutto ciò che lo circonda.

Un film dal classico stampo americano. Narrazione convenzionale, humor asciutto, belle ragazze e Justin Timberlake.
Ma parliamo di David Fincher, per cui la narrazione è spezzata e poi ricucita da salti temporali che la rendono ritmata ma fluida, e interessante. Lo humour ti colpisce quando meno te lo aspetti senza essere mai ovvio, in agguato ad ogni angolo, soprattutto alle svolte più amare. Le belle ragazze sono cazzute nel New England e puttane in California. Justin Timberlake firma una performance inaspettata.

La storia è nota, è recente, e la sanno tutti, come chi ha vinto l’ultimo campionato. Il ragazzo in preda ad una sbronza, appena lasciato dalla fidanzata, si lancia per ripicca nel mondo che conosce meglio, quello informatico, e crea un sito insignificante e maschilista sul quale si possono votare le foto delle ragazze del suo campus. Questo sito nel giro di pochi giorni diventerà quello che conosciamo, dopo che il suo creatore avrà rubato l’idea di base per allargarne la portata da alcuni ragazzi della sua scuola. Perché diciamocelo, lo ha fatto. Ed è per questo che i ragazzi di cui sopra, i gemelli Winklevoss, hanno vinto la causa che gli hanno intentato per frode. “Se foste i veri creatori di facebook avreste inventato facebook” tuona sarcastico e rilassato Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg) dalla comoda poltrona di uno studio legale. Ed è proprio questo il lato intrigante della vicenda. Che non ce n’è una, ce ne sono tre.

Aaron Sorkin, sceneggiatore straordinario (consegna la sua prima stesura della lunghezza di 165 pagine, eccezionalmente approvata subito per le riprese) e David Fincher hanno riconosciuto l’universalità, sia territoriale che temporale, dei temi da loro trattati, così per differenziarla da un classico dramma, diciamo Shakespeariano hanno puntato tutto sul concetto che la verità non è univoca. Hanno per così dire attinto dalla tavolozza a 256 colori invece che dalla cartella in scala di grigi. “Piuttosto che decidere quale fosse vero e quale no, ho pensato che la cosa migliore fosse drammatizzare tutti i conflitti narrativi” dice Sorkin, “inoltre l’idea di una serie di realtà possibili sembrava molto più in linea con facebook stesso, e cioè con le molteplici possibilità di mostrare un concetto molto personale di verità”. Inseguire la giustizia non è importante per questo progetto, bensì lo è la ricerca del dettaglio, sia attoriale che scenografico, per ricreare gli eventi ed assemblare i fatti come scopo ultimo del film.

La maggior parte delle pellicole biografiche segue uno svolgimento lineare, in questo caso invece parlavamo di storia frammentata. Un lungo flashback che parte dal presente delle due battaglie legali che vedono Mark come protagonista. Un uno contro tutti in cui la parola di ognuno è buona come il pane e un reperto e-mail vale come l’oro. Un processo meno incentrato nello stabilire le colpe e più sul determinare il preciso grado di carognaggine di Zuckerberg. Quale esso sia poi resta soggettivo, perché alla fine il giovane milionario non ne esce né diffamato come avido e stupido, pronto a sacrificare quei pochi amici che ha per arrivare al successo (che poi più che di denaro il suo è desiderio di rivalsa sociale), né esaltato come mito dell’anticonformismo. Gli autori proseguono anche in questo caso sul loro percorso, ben più pericoloso, per i produttori soprattutto, cercando di evitare delineazioni nette. Mark Zuckerberg sarà molte cose per ognuno di noi, ma per il mondo nel suo complesso è sicuramente la vittima di un disagio sociale che è in grado di trasformare in un codice informatico d’avanguardia. E’ un hacker, un antieroe, un anarchico che cerca di scontrarsi con le persone che hanno reso il suo mondo infelice, che ad ogni passo che fa per essere accettato finisce per far male a qualcuno, un tagliatore di ponti professionista. In nessun momento del film lo spettatore è portato a simpatizzare per lui, non c’è nessuna scena in cui il ragazzo si butta in terra e si raggomitola tremando perché si sente tanto solo. Non sono permesse distrazioni dal soggetto, che sono i fatti, non i sentimenti.
Per quanto riguarda le reazioni di carattere più intimo, quelle poi derivano involontariamente dalle circostanze, e il nostro protagonista, forse profondamente solo, o forse no, ci saluterà in compagnia di un computer e della sua pagina facebook.

L’assioma è quello di fotografare una società avanzata e interconnessa in cui i nostri profili e i nostri blog ci definiscono di più delle azioni che facciamo in carne ed ossa, ma che resta chiusa, ingabbiata da pregiudizi vecchi di secoli su come i nostri eroi e le loro nemesi dovrebbero apparire, parlare e agire. Infatti Mark Zuckerberg è un ragazzo che ce l’ha fatta, l’eroe della nostra storia, eppure resterà irreversibilmente instabile e fuori posto.

Tanti film mostrano che il denaro dà alla testa e trattano dell’avidità come motore del mondo, ma in fondo quante persone possono identificarsi con un ricco magnate? The Social Network stravolge le carte in tavola nel presentarci esattamente un ricco magnate, ma piagato da qualcosa con cui tutti possiamo relazionarci: un costoso – in termini umani - desiderio di accettazione che si tramuta in una cieca ambizione di scalata sociale.

Eisemberg ruba la scena a tutti, persone ed oggetti compresi, lanciando sguardi intorno a tavoli come se le persone che lo circondano fossero tutte imbecilli, sparando commenti caustici che un po’ fanno sentire tali anche noi, macinando parole alla velocità della luce, muovendosi, interagendo, e persino stando fermo come se al mondo esistesse solo lui. Strepitoso. Ci ha raccontato come la scena di apertura sia stata girata 99 volte. Ciò avrebbe probabilmente condannato alla pazzia qualsiasi attore, invece lui ha continuato a lavorare alla sua performance ciak dopo ciak e questo molto onestamente si percepisce, elevandolo a qualche prestigioso premio nella prossima award season.
Il cast tutto ben si adegua a questo standard, da Andrew Garfield, il migliore amico tradito, la parte più emotiva del film, un personaggio in 3D nel senso interiore; a Timberlake, la versione con codice postale californiano di Zuckerberg, astuto imprenditore e gran pezzo di merda, che si fonde nel suo ruolo spogliandosi della vecchia immagine di menestrello per teenager con coraggio e umiltà, provando che forse l’attore può farlo davvero. Certo gli servirà qualche altro colpo ben assestato per convincercene fino in fondo, ma questo è il prezzo da pagare per chi cambia carriera.

Il successo maggiore di The Social Network sta nel catturare la febbre della nascita di facebook implicando contemporaneamente che questo ha generato molti soldi e un effimero clamore ma non molto di più. Piena di rivalità, invidia e di orgogliosi mezzi geni questa storia ci rivela, alla fine, cosa? Molta solitudine. Sorkin e Fincher hanno ben amalgamato eccitazione e scalpore con un persistente, scuro pessimismo, in un film di persone che digitano davanti a computer e parlano dentro stanze, ma pieno di suspance come se fosse un vero e proprio thriller.

(Cristina Fanti)

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mercoledì 10 novembre 2010

I want to be a Soldier

Strano ma vero, nella loro categoria Valeria Marini è un’attrice migliore di Monica Bellucci. Lo so, neanche io lo credevo possibile, ma è così. Vi chiedo uno sforzo, me ne rendo conto, ma se riguardaste Matrix Reloaded, e lo comparaste ad I want to be a Soldier, in versione originale, capirete di che parlo.
Valeria Marini non sospira, parla. Valeria Marini non ha grande mobilità facciale per via di Mr. Botulino e della sua allegra famiglia, ma vi è un accenno di espressione. Valeria Marini ha un forte accento italiano, ma almeno parla qualcosa di simile all’inglese. Mi ha colpito, non posso dire altrimenti.

Non solo per averla schierata fra gli interpreti (sorvoliamo sul fatto che ne sia produttrice) il film è coraggioso.

Una storia delicata, di violenza, a tratti anche d’odio, di dipendenza, d’invisibilità. Parliamo di un bambino, un bel bambino, Alex. Delicato, mansueto, sognatore e studioso, che complice un edulcorato Sergente Hartman (parto della sua fantasia e “merito” di un’incombente televisione, simbolo della mala-educazione) si trasforma nel mignon di un naziskin.
Le immagini di guerra e di torture che la TV trasmette senza limiti scorrono sui suoi primi piani, proiettategli addosso e riflesse in tutta la sua stanza, dove si chiude a chiave, consapevole della sua disobbedienza. Graffiano quelle pareti di gomma che bendano gli occhi dei suoi genitori.
Il tracollo è immediato, e l’impotenza delle istituzioni, tutte, è denunciata senza mezzi termini, fino a costringermi ad ancorarmi alla sedia del cinema per non scattare fin dentro allo schermo e urlare contro questa madre distratta, questo padre naive e questa scuola impotente, prendere un bastone e colpire quel trasmettitore di fango e infamità fino a farlo esplodere con dovizia di scintille.

La regia non solo è molto curata, ma davvero raffinata, nei piani sequenza che ci costringono inermi di fronte alla cruda realtà e negli articolati balletti di macchina e attori, dialoghi che si accavallano su più piani scenografici, colori, angolazioni e luci interessantemente espressive.

Sottile e acuta, ma soprattutto molto funzionale, la figura dell’amico immaginario del nostro piccolo Hitler. Quando lo conosciamo è un astronauta, candido consigliere che lo aiuta con i compiti, a cena lo persuade dell’importanza di mangiare verdure per diventare grandi uomini, d’età, di statura e di mente, e gli racconta le meraviglie del cosmo, giocherellando con una leggera pochette da taschino bianca. Con il crescere della morbosa fascinazione per la guerra nella mente di Alex, e nella sua stanza con un repentino cambio di arredamento sostenuto da suo padre ma disapprovato dalla madre, l’immaginario stesso del film evolve e il candido astronauta, indossata una divisa militare con un tappeto di medaglie al merito e fumando sigari a tutto spiano, strepita a pochi centimetri dal suo orecchio elogiando impietosità, vendetta, disobbedienza, e sventolando vittorioso un piccolo fazzoletto rosso. Signore, si Signore.

Alex si rade i capelli e parla dell’odore di Napalm al mattino. Fergus Riordan ci regala una performance adulta, e non sono da meno gli altri interpreti.

Il lavoro di martellamento psicologico è chirurgico e indolore, così a un tratto mi trovo a provare antipatia per questo bambino che tenta persino di affogare quel fratello minore che gli ha tolto l’attenzione di mamma e papà; e disprezzo per questi ultimi, che nonostante i ripetuti appelli dello psicologo che segue Alex non riescono a vedere oltre le loro dispute matrimoniali. Non so se il regista volesse questo da me.

Ciò che ho sentito negli 88 minuti in cui la pellicola ha camminato mi ha portato però a riflettere su cosa voglia dire mettere al mondo un’anima ai tempi d’oggi. Questo sono sicura invece che lo volesse.

Vincitore del premio Alice nella città Under 12 al Festival del Film di Roma 2010, non è certamente solo un film per bambini.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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sabato 6 novembre 2010

Last Night

L’attrice che meno stimo al mondo, 90 minuti, una prospettiva terrificante. Le luci si spengono. Ma non è così male. Almeno il digrignamento dei denti non è vistoso come al solito.

Last Night, un film in cui Keira Knightley non indossa un corsetto e Sam Worthington non ha la pelle blu. Eva Mendez… Beh lei fa quello che le riesce meglio.

Una coppia di giovani sposata da quattro anni, i primi due, è minacciata dall’ingresso in scena di un sederotto prosperoso, quello della cubana. Joanna (Knighley) comincia a sospettare dell’infedeltà di Michael (Worthington) durante una cena di lavoro, quello di lui. Perché lei fa la scrittrice, ed è un tantino persa in questo mondo dove l’arte non si mangia. L’indomani Michael parte per un convegno insieme ad alcuni colleghi, inclusa Laura (Mendez), la pietra dello scandalo.

Da questo momento in poi la regista, sceneggiatrice di The Jacket, per cui ha la mia stima, e amica della Knightley, per cui la perde, segue le vicende che si dispiegano nel corso di una lunga notte a Philadelphia, dove si trova Michael, e a New York, dove è rimasta Joanna.

Quest’ultima durante un blocco creativo nella mattinata dello stesso giorno era scesa a prendere un caffè e aveva incontrato per caso un suo vecchio amante. Lui, prestante e francese (Guillaume Canet), non tanto per caso l’aveva pedinata perché, in città per sole altre 24 ore, sentiva il bisogno di rivederla. Sembrerebbe che il sentimento sia ricambiato, perché i due si danno appuntamento per un disagevole aperitivo che si trasformerà in molto altro.

Il tema in cui questo film si diverte a girare il coltello è quanto mai banale ma sempreverde. Lo slogan stampato sulla locandina recita: a volte quello che desideri è tutto quello che non puoi avere. Dalla conferenza stampa è emerso che una frase più consona sarebbe: è meglio tradire con il corpo o con la mente?
Non sono d’accordo che i personaggi desiderino ciò che non possono avere. Hanno al contrario una concreta possibilità di avere esattamente quello che vogliono, esplorano a fondo questa possibilità, vi ci sguazzano anche, e alla fine decidono con cognizione di causa. Cosa decidono lo lascio scoprire a voi, ammesso che dopo un’ora e trenta di dialoghi ancora vi interessi.

Non sono scritti male, anzi, al contrario, per essere un film così statico tiene sufficientemente aperto l’occhietto dello spettatore assonnato, ma sono tante parole. Tante, tante parole. Molti primi piani. E tante parole. Il maggior traguardo a cui questo meccanismo porta è l’ottenere una sorta di suspance, una corda tesa fra le due coppie che sono sempre sul punto di fare qualcosa, sul punto di scattare a molla, sul punto di sferrare il colpo fatale al cuore dell’altro, non con un pugnale, ma con un’arma che ferisce anche di più. Un thriller romantico, un Hitchock in salsa Bullock.

La riflessione che ne deriva offre spunti interessanti, le atmosfere newyorkesi sono molto godibili, gli attori credibili, ma una storia, un po’ come in un saggio invece che in un’opera narrativa, stringendo stringendo, non c’è.

(Cristina Fanti)

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