sabato 18 settembre 2010

Butterfly Zone

La premessa di questo film è a tratti interessante.
Un’astronave emana un raggio luminoso sottolineato dall’audio di una lingua aliena. Nei sottotitoli a corredo si legge che l’ET in questione ha commesso un grossolano errore e viene sgridato da quello che è presumibilmente il suo capo. Ci sembra di assistere ad un battibecco tipico di quei mostriciattoli verdi delle puntate di Halloween dei Simpson, alieni guasconi e casinari all’Americana.
Si ha questa idea dall’incipit della storia: uno sci-fi movie dalle tinte ironiche. Un tentativo di traduzione all’amatriciana di film come Independence day o Mars attacks. I miei occhi sbrilluccicano e l’attenzione si desta. Magari fosse così. Naturalmente, ne ho la conferma poco dopo, c’è un motivo se i film di fantascienza si fanno negli Stati Uniti e non in Italia.

L’assunto è folle. Il raggio alieno della prima scena che ha colpito la vigna di Francesco Salvi ha trasformato i suoi chicchi d’uva in passaporti per l’aldilà e così un sorso del vino che ne deriva permette di viaggiare a cavallo delle coscienze, in una dimensione ultraterrena che però mi sembra non abbia molto da dire. Il tutto si trasforma in thriller quando accidentalmente, attraverso questo ponte interdimensionale aperto dal vino, torna sulla terra un sadico assassino guidato da un qualche istinto mistico a la Codice da Vinci, che però sfortunatamente non fa paura a nessuno ed è credibile quanto il Puffo Burlone.

Il regista stesso, per darsi un tono cinefilo, dice di amare la commistione e di aver infatti su di essa puntato tutto. Forse però non ha controllato che sul dizionario alla voce “commistione” non c’è scritto: accozzaglia informe di elementi di genere. Comicità da bar dello sport, presenze surreali - come una banda musicale immobile in un campo di grano (per nessun motivo apparente), citazioni a caso tanto per gradire - come Barbara Bouchet vestita da Salvador Dalì, e via discorrendo.

Nel sottobosco della trama un vecchio uomo d’affari cerca di appropriarsi del vino in questione per poter così controllare le nascite e le morti. E’ un concetto che non ho avuto neppure voglia di analizzare, ma nella sua rappresentazione, nella sua recitazione forzata, mi ha ricordato il piano malefico di un nemico molto poco riuscito della serie televisiva Streghe.

Gli attori sono spesso innaturali, anche se il regista ostenta un gioco alla libertà di espressione che avrebbe dovuto facilitare gli interpreti nel raggiungimento della naturalezza espressiva. Alessandra Rambaldi ne esce particolarmente sconfitta.

La stessa scelta dei nomi dei protagonisti la dice lunga sulla predisposizione dello sceneggiatore/regista/curatore della colonna sonora, fin troppo strambi e ricercati, come se ci volesse far ridere ad ogni costo, come se in ogni minimo particolare sentisse la necessità di sottolineare la sua peculiarità artistica e il suo coraggio nell’aver realizzato un film così “colorato” – traduci: “pretenzioso”.

All’uscita dalla proiezione ci regalano una bottiglia di vino, forse per aiutarci a dimenticare.

(Cristina Fanti)

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