martedì 11 gennaio 2011

Kill me please

Bianco e nero nella forma, molto nero nei contenuti. Kill me please è una farsa scura e politicamente scorretta che prende le mosse in una clinica per la “buona morte” in cui si aiutano i pazienti a dipartire da questo nostro mondo infame. Ha i suoi momenti, ma soffre di un certo avaro desiderio di essere irritabile, compassionevole e provocatorio presupponendo di continuare a far sbellicare ininterrottamente dalle risate. Una certa freschezza e originalità ci sono, nel suo modo sardonico di trattare un taboo, e questo aiuta a reggere il pubblico tra gli infiniti cambiamenti di tono e cul de sac drammatici. Purtroppo a conti fatti è un film frustrante, mai così intenso, dissacrante o semplicemente divertente come vorrebbe essere.

I picchi di comicità sono soprattutto negli scambi verbali e nei guizzi fisici dei protagonisti, piuttosto che in scene realmente studiate per far ridere nella loro complessità. Qualche coup de theatre ben piazzato aiuta a ritirare su l’attenzione dopo alcuni piccoli cali di voltaggio.

Lo stile di ripresa vagamente documentario, camera a mano e fotografia austera, resta tutto sommato inspiegato. La macchina da presa è invadente ma non si rivela mai come giocatore attivo; sembra che i personaggi da un momento all’altro si rivolgano alla troupe ma in realtà non lo fanno mai, lasciandoci così timidamente in bilico fra soggettività grottesche e fissità impersonali.

Confidando su questo formato semi documentaristico Barco non ha la necessità di puntellare troppo la storia, e così il gran finale arriva sospinto da fragili ali drammatiche. Similmente, nonostante degli sprazzi in cui gli incastri funzionano, alla pellicola nel suo complesso sembra mancare coerenza. A dispetto della dichiarata indole farsesca e laconica la vicenda pare faticosamente cercare un messaggio complesso, senza però che si capisca quale. Forse che anche le strategie di fuga (dalla vita, in questo caso) più meticolosamente programmate hanno la strana abitudine di andare a finire nel verso sbagliato? Il semplice fatto che ce lo chiediamo fa meditare sulla riuscita dell’opera, che pure non ha scoraggiato la giuria del Festival del cinema di Roma dal conferirgli il premio più ambito.

Il perno della vicenda, il direttore della clinica, dott. Kruger, sembra minaccioso e sfuggente quando ci viene presentato, facendoci sperare che loschi affari emergeranno per il nostro sollazzo dai lettini della struttura. Man mano che la storia procede però queste sue qualità sono impastate in maniera sempre meno saporita, fino a volerci far credere che il motivo per cui si sia dato tanta pena nel mettere in piedi una tale struttura, con tanto di faida con il vicino villaggio con il quale intrattiene sparatorie alla Robocop, sia semplicemente perché convinto sostenitore del diritto umano di scegliere il modo, il tempo e il luogo di morire e niente più. Terribilmente blando, le nostre papille gustative battono in ritirata, sconfitte. Un personaggio sprecato.

Nel caso dei suoi pazienti invece accade il contrario; tutti sono soffritti lentamente e aggiungendo via via manciate di pepe. Cercare di scoprire fin quanto ognuno di essi sia effettivamente fuori di testa sembra il vero scopo della visione del film. Forse non quello per cui siamo venuti, ma pur sempre gustoso.

(Cristina Fanti)

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lunedì 3 gennaio 2011

Hereafter

Il film si apre in una camera da letto, poi una spiaggia e una tipica trappola per turisti, una stradina popolata da bambine sorridenti e bancarelle mangia dollari in un villaggio della, diciamo, Tailandia. Bam, il mare si gonfia, un’onda che potrebbe contenere un sottomarino rotola verso la spiaggia. Vorrei scappare tanto sembra vera. Ottimo, un grande film d’azione. Dieci minuti al cardiopalma mentre una dei nostri protagonisti è investita in pieno dallo tsunami, un’automobile spinta dalla marea le sfonda il cranio, diventa blu, ha una visione e infine torna a respirare. Accidenti, questa roba piace. La tensione è interrotta spostandoci a San Francisco. Scopro che nel cast c’è Matt Damon, e anche che non si tratta di un film d’azione, ma di un duro viaggio all’interno di forti individualità centrato intorno ad uno dei maggiori misteri della vita: la morte. Clint Eastwood ci ha gabbato.

160 lustri, una pellicola all’anno da quando gli orologi hanno segnato i suoi 65, uno stile di regia sobrio e curato, diverso dal mainstream hollywoodiano. “Mi piace abbracciare quelle storie che ci fanno conoscere i personaggi nel dettaglio piuttosto che incoraggiare il breve spettro di attenzione della moderna generazione”. In traduzione eastwoodiana, quello che tutti abbiamo pensato uscendo dalla sala: “questo film è lento”.

Hereafter parla di morte, e lo fa offrendo diverse prospettive in materia: l’esperienza sovrannaturale della giornalista francese vittima dello tsunami, che dopo la sua visione di un deserto abitato da sagome di luce ha difficoltà a concentrarsi nel lavoro; Matt Damon, un sensitivo che connette le persone con i loro cari defunti, quelle stesse sagome di luce di quello stesso deserto, traumatizzato dal suo dono, che vede più come una condanna; il lutto di un bambino che perde suo fratello gemello, al quale è legato da un filo fin troppo doppio al fine di fronteggiare una madre eroinomane e senza un briciolo di dignità.

Si spazia tra toni opposti, dal caos iniziale a quiete e ombra dell’appartamento in cui Damon fornisce riluttante i suoi servizi. Ciò prova che mirabolanti effetti speciali possono essere accoppiati a un grande dramma e non sempre devono contare sulla presenza di alieni in 3D o robot in computer grafica per essere apprezzati dal pubblico. Grande l’elasticità del regista che riesce a seguire senza deragliare il delicato tracciato della sua storia, non forzando mai il suo punto di vista. Il film non si allinea, non fornisce particolari messaggi, narra e lascia allo spettatore le somme da tirare. Conquisterà alcuni e annoierà altri, ma la promessa di cura e passione non è mai tradita.

La narrazione è seguita con grazia, bilanciando l’intreccio fra l’ossessione della morte e il suo più diretto risultato, il lutto, e quello che significa vivere, e andare avanti. Tutti i protagonisti scopriranno che non esiste una facile risposta ma ciò non vuol dire che non ci sia speranza di trovare conforto.

Purtroppo il messaggio non è chiaro allo sceneggiatore che nel finale vira egli stesso proprio su quella strada più facile, contando, forse troppo, su un senso di provvidenza non presente nel resto del film. Forte la necessità di far quadrare i conti, anche se nel resto della storia ci ha mostrato a più riprese che la vita, così come la morte, è un’esperienza imprevedibile.

Eastwood e i suoi attori trattano la sceneggiatura con una mano gentile e rispettosa. Nessuno esagera mai in termini di emozioni, giusta intuizione per un racconto molto intricato, facile da far rotolare lungo il declivio del melodramma se le performance avessero spinto troppo sul patetico.

L’inevitabile struttura dei film con storie multiple porta con sé una problematica: è prevedibile. Sappiamo esattamente cosa succederà. Forse non sappiamo come, ma sappiamo che succederà. Le vite dei protagonisti alla fine s’intersecano in qualche modo, e tutta la buona recitazione, la raffinata regia e i dialoghi pesati del mondo, non eviteranno che gli spettatori riescano a fare due più due. Molta magia viene sottratta al percorso che questi compiono insieme ai personaggi se possono facilmente seguirne la traccia da bendati. Non aiuta il fatto che la pellicola sia lunga una mezz’oretta di troppo nel centro, utile solo ad inspessire le fondamenta del gran finale ma senza aggiungere nulla in termini di energia, e resa guardabile più che altro dalla performance meravigliosamente in sordina di Damon.

Come film di domande sulla vita e la morte funziona, come film su un uomo reso miserabile dalle sue abilità funziona, ma appena si capisce come tutti i nodi verranno al pettine, l’incanto muore come travolto da un’onda anomala.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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