giovedì 11 novembre 2010

The Social Network

Uso facebook dal 2006 con una convinzione che possiamo definire religiosa. Almeno fino ad oggi. In effetti in questo momento non mi trovo più molto a mio agio tra le sue interfacce. Mark Zuckerberg non esce dipinto al meglio da The Social Network, e con lui è diventato un tantino inquietante tutto ciò che lo circonda.

Un film dal classico stampo americano. Narrazione convenzionale, humor asciutto, belle ragazze e Justin Timberlake.
Ma parliamo di David Fincher, per cui la narrazione è spezzata e poi ricucita da salti temporali che la rendono ritmata ma fluida, e interessante. Lo humour ti colpisce quando meno te lo aspetti senza essere mai ovvio, in agguato ad ogni angolo, soprattutto alle svolte più amare. Le belle ragazze sono cazzute nel New England e puttane in California. Justin Timberlake firma una performance inaspettata.

La storia è nota, è recente, e la sanno tutti, come chi ha vinto l’ultimo campionato. Il ragazzo in preda ad una sbronza, appena lasciato dalla fidanzata, si lancia per ripicca nel mondo che conosce meglio, quello informatico, e crea un sito insignificante e maschilista sul quale si possono votare le foto delle ragazze del suo campus. Questo sito nel giro di pochi giorni diventerà quello che conosciamo, dopo che il suo creatore avrà rubato l’idea di base per allargarne la portata da alcuni ragazzi della sua scuola. Perché diciamocelo, lo ha fatto. Ed è per questo che i ragazzi di cui sopra, i gemelli Winklevoss, hanno vinto la causa che gli hanno intentato per frode. “Se foste i veri creatori di facebook avreste inventato facebook” tuona sarcastico e rilassato Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg) dalla comoda poltrona di uno studio legale. Ed è proprio questo il lato intrigante della vicenda. Che non ce n’è una, ce ne sono tre.

Aaron Sorkin, sceneggiatore straordinario (consegna la sua prima stesura della lunghezza di 165 pagine, eccezionalmente approvata subito per le riprese) e David Fincher hanno riconosciuto l’universalità, sia territoriale che temporale, dei temi da loro trattati, così per differenziarla da un classico dramma, diciamo Shakespeariano hanno puntato tutto sul concetto che la verità non è univoca. Hanno per così dire attinto dalla tavolozza a 256 colori invece che dalla cartella in scala di grigi. “Piuttosto che decidere quale fosse vero e quale no, ho pensato che la cosa migliore fosse drammatizzare tutti i conflitti narrativi” dice Sorkin, “inoltre l’idea di una serie di realtà possibili sembrava molto più in linea con facebook stesso, e cioè con le molteplici possibilità di mostrare un concetto molto personale di verità”. Inseguire la giustizia non è importante per questo progetto, bensì lo è la ricerca del dettaglio, sia attoriale che scenografico, per ricreare gli eventi ed assemblare i fatti come scopo ultimo del film.

La maggior parte delle pellicole biografiche segue uno svolgimento lineare, in questo caso invece parlavamo di storia frammentata. Un lungo flashback che parte dal presente delle due battaglie legali che vedono Mark come protagonista. Un uno contro tutti in cui la parola di ognuno è buona come il pane e un reperto e-mail vale come l’oro. Un processo meno incentrato nello stabilire le colpe e più sul determinare il preciso grado di carognaggine di Zuckerberg. Quale esso sia poi resta soggettivo, perché alla fine il giovane milionario non ne esce né diffamato come avido e stupido, pronto a sacrificare quei pochi amici che ha per arrivare al successo (che poi più che di denaro il suo è desiderio di rivalsa sociale), né esaltato come mito dell’anticonformismo. Gli autori proseguono anche in questo caso sul loro percorso, ben più pericoloso, per i produttori soprattutto, cercando di evitare delineazioni nette. Mark Zuckerberg sarà molte cose per ognuno di noi, ma per il mondo nel suo complesso è sicuramente la vittima di un disagio sociale che è in grado di trasformare in un codice informatico d’avanguardia. E’ un hacker, un antieroe, un anarchico che cerca di scontrarsi con le persone che hanno reso il suo mondo infelice, che ad ogni passo che fa per essere accettato finisce per far male a qualcuno, un tagliatore di ponti professionista. In nessun momento del film lo spettatore è portato a simpatizzare per lui, non c’è nessuna scena in cui il ragazzo si butta in terra e si raggomitola tremando perché si sente tanto solo. Non sono permesse distrazioni dal soggetto, che sono i fatti, non i sentimenti.
Per quanto riguarda le reazioni di carattere più intimo, quelle poi derivano involontariamente dalle circostanze, e il nostro protagonista, forse profondamente solo, o forse no, ci saluterà in compagnia di un computer e della sua pagina facebook.

L’assioma è quello di fotografare una società avanzata e interconnessa in cui i nostri profili e i nostri blog ci definiscono di più delle azioni che facciamo in carne ed ossa, ma che resta chiusa, ingabbiata da pregiudizi vecchi di secoli su come i nostri eroi e le loro nemesi dovrebbero apparire, parlare e agire. Infatti Mark Zuckerberg è un ragazzo che ce l’ha fatta, l’eroe della nostra storia, eppure resterà irreversibilmente instabile e fuori posto.

Tanti film mostrano che il denaro dà alla testa e trattano dell’avidità come motore del mondo, ma in fondo quante persone possono identificarsi con un ricco magnate? The Social Network stravolge le carte in tavola nel presentarci esattamente un ricco magnate, ma piagato da qualcosa con cui tutti possiamo relazionarci: un costoso – in termini umani - desiderio di accettazione che si tramuta in una cieca ambizione di scalata sociale.

Eisemberg ruba la scena a tutti, persone ed oggetti compresi, lanciando sguardi intorno a tavoli come se le persone che lo circondano fossero tutte imbecilli, sparando commenti caustici che un po’ fanno sentire tali anche noi, macinando parole alla velocità della luce, muovendosi, interagendo, e persino stando fermo come se al mondo esistesse solo lui. Strepitoso. Ci ha raccontato come la scena di apertura sia stata girata 99 volte. Ciò avrebbe probabilmente condannato alla pazzia qualsiasi attore, invece lui ha continuato a lavorare alla sua performance ciak dopo ciak e questo molto onestamente si percepisce, elevandolo a qualche prestigioso premio nella prossima award season.
Il cast tutto ben si adegua a questo standard, da Andrew Garfield, il migliore amico tradito, la parte più emotiva del film, un personaggio in 3D nel senso interiore; a Timberlake, la versione con codice postale californiano di Zuckerberg, astuto imprenditore e gran pezzo di merda, che si fonde nel suo ruolo spogliandosi della vecchia immagine di menestrello per teenager con coraggio e umiltà, provando che forse l’attore può farlo davvero. Certo gli servirà qualche altro colpo ben assestato per convincercene fino in fondo, ma questo è il prezzo da pagare per chi cambia carriera.

Il successo maggiore di The Social Network sta nel catturare la febbre della nascita di facebook implicando contemporaneamente che questo ha generato molti soldi e un effimero clamore ma non molto di più. Piena di rivalità, invidia e di orgogliosi mezzi geni questa storia ci rivela, alla fine, cosa? Molta solitudine. Sorkin e Fincher hanno ben amalgamato eccitazione e scalpore con un persistente, scuro pessimismo, in un film di persone che digitano davanti a computer e parlano dentro stanze, ma pieno di suspance come se fosse un vero e proprio thriller.

(Cristina Fanti)

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