martedì 14 dicembre 2010

Tron Legacy

Per chi non ha visto il primo film questa storia è piatta e insulsa. Per chi invece ha familiarità con il prequel, ma di blando coinvolgimento, è più che altro un insulto. Prodotto Disney che scivola facilmente in un regno di pertinenza Chicco. Un intreccio da encefalogramma piatto. Personaggi con lo spessore di una velina (il foglio di carta, ma anche la soubrette se preferite). E’ superfluo contemplare il punto di vista degli aficionados del franchise; l’amore si sa, è cieco.

Il vecchio Tron datato 1982 è stato applaudito a ragion veduta per le sue implicazioni rivoluzionarie. Creato su un computer con 2MB di memoria, che un bambino delle elementari ormai non sa neanche immaginarseli, e con un procedimento certosino. Date le difficoltà tecnologiche di dettagliare gli effetti digitali, che non conoscevano comunque ancora il modo di essere mischiati con le immagini catturate dal vivo come invece facciamo ai giorni nostri, si è deciso di utilizzare il colore nero per nascondere le imperfezioni. Si è girato così in bianco e nero, su un set completamente nero; stampate le immagini su pellicola a forte contrasto, poi stratificata con vari livelli di copie positive e negative, queste sono state colorate a mano per donare loro connotati futuristici.

Il nuovo Tron si propone di raddoppiare il primato e di replicare, a distanza di trent’anni, la fortunata introduzione di tecnologie innovative. Ripetere la storia però non è facile. Ci provano comunque, convinti, vantando di essere il primo film in 3D realizzato con lenti e sensori da 35mm. Inoltre per la prima volta un attore, Jeff Bridges, che ritorna nei panni del Kevin Flynn già interpretato nel prequel, per essere digitalmente ringiovanito recita fra i suoi colleghi indossando un casco creato con uno stampo del suo viso e dotato di 52 sensori, che catturano le sue espressioni e le trasferiscono ad un modello realizzato con un patchwork di decine di sue vecchie foto. Interessante. Ma non saprei quantificare quanto pioneristico. La parola Avatar mi gira vorticosamente in testa.

All’opposto su alcuni tasti si è scelto di non picchiare diversamente dal passato, bensì conservare la matrice originaria. Il pesante bagno di nero nato all’epoca del primo capitolo dalla necessità, è mantenuto fino allo stremo. Dopo un’ora gli occhi, già oberati dagli appannati (indipendentemente da quante volte si tenta di pulirli con l’apposito panno) occhiali 3D, fanno fatica a distinguere cose e persone.
Il regista, laureato in ingegneria meccanica e architettura, affascinato dalle linee geometriche, ha serbato inoltre l’impianto visivo squadrato di stampo anni 80, sia come omaggio al suo predecessore, sia perché intrigato dalla possibilità di integrare diverse tipologie di oggetti di design, come ad esempio sedie barocche e neon nella casa digitale di Flynn. Il tutto in un misurato equilibrio, fortemente voluto, fra quegli elementi d’arredo in cui si può inciampare e un meno ingombrante blue screen.

Il 3D, utilizzato soprattutto all’interno del mondo digitale, a cui fanno da reggilibro un incipit e un epilogo in due dimensioni che si svolgono nel mondo reale, non è invadente ed è integrato in maniera quasi impercettibile, eccezion fatta naturalmente per i fastidiosi occhiali. Nei rocamboleschi combattimenti non ci sono dischi, armi di fiducia del protagonista e relativi nemici, lanciati contro il pubblico, né moto luminose che durante gli inseguimenti saltano fuori dallo schermo per farci nascondere dietro al nostro vicino. Kosinski ha usato la tecnologia più blasonata del momento in maniera intelligente, per arricchire l’esperienza visiva e non per essere l’esperienza visiva.

Il lavoro creativo è stato elaborato. Sono stati chiamati a collaborare per il design dei veicoli gli ingegneri delle più grandi case automobilistiche; i costumi, realizzati in gomma con inserti di lampade elettroluminescenti, anche in questo caso per privilegiare il realismo alla computer grafica, hanno necessitato di ricerche e sarti all’avanguardia; perfino alcuni scienziati sono stati disturbati per accertarsi che la storia narrata fosse conforme alle maggiori leggi scientifiche. Mi lascia basita dunque che da un impegno così importante sia risultato un prodotto tanto banale, per non dire terribile.
Si dice che al centro dei ragionamenti ci sia stata l’intenzione di rendere al meglio il peso del rapporto tra padre e figlio, ma sinceramente, dalle tre battute in cui questo tema viene sfiorato, non mi è sembrato che gli sceneggiatori abbiano avuto delle brillanti relazioni genitoriali cui ispirarsi.

Per tutti i film brutti della storia, nel trovare qualcosa da salvare, capita di fare i complimenti alla musica. In questo caso sono veri. Gestita interamente dai Daft Punk e vera protagonista, dal momento che il materiale narrativo è scadente, tocca a lei guidare il gioco fra un esperimento grafico e l’altro, come se fossimo sintonizzati su un promo di MTV.

Una nota positiva, in questo brodo riscaldato di eroi, antieroi, geniali scienziati, ragazzi prodigio e grandi topolone cibernetiche, il seguente picco di coraggio: tra i due protagonisti, giovani e fighi, finanche nella sentimentale scena finale, il film resiste dal far scoccare il più classico dei baci risolutori. Almeno questo cliché ci è stato risparmiato. Fino al prossimo sequel.

(Cristina Fanti)

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