mercoledì 22 dicembre 2010

Un altro mondo

Cronistoria del film di Natale.
Anni 80: Una poltrona per due.
Anni 90: Schwarzenegger fa il papà di famiglia, bambini cercano tesori e mettono trappole sentendosi grandi per un giorno, qualche batuffolo di neve e redenzione per tutti nel finale.
Anni 2000: donne nude, seni, sederi e volgarità.
Anni 2010: Silvio Muccino.

Tale pare la piega presa dal filone con questo lancio coraggioso della Universal durante la festività più amata dagli italiani. Coraggioso perché nel film non ci sono né Boldi né De Sica.
Bensì tanti sentimenti, anche se un po’ scorretti perché tutti facilmente affidati agli occhioni di Michael Rainey Jr., il bimbo protagonista, nero e orfano, praticamente un magnete di simpatie per il pubblico. Gli adulti invece, quasi tutti freddi e imbalsamati per la maggior parte del film, senza grande sforzo per gli attori chiamati a interpretarli, restituiscono una realtà un po’ troppo stilizzata. Secondo i produttori si tratta di una storia di redenzione che si fa paladina dei veri ideali da diffondere a Natale. La concorrenza di questi tempi è effettivamente abbordabile, ma in qualche modo il film, nonostante i vantaggi di cui sopra, esce sconfitto.

In conferenza stampa si parla di esistenzialismo, perché, nell’anno e mezzo in cui Silvio Muccino e Carla Vangelista (autrice del libro da cui il film è tratto) si sono impegnati a scrivere la sceneggiatura, hanno avuto abbastanza tempo per rimpinzarla di tutti i temi più vaghi e generici che attanagliano la natura umana: il razzismo, la solitudine, il rapporto con il proprio corpo, quello con gli altri, la povertà e dulcis in fundo la morte, che unisce sempre famiglie e spiriti e coagula la formula perfetta per le feste.
Chiuso il cerchio di questo “vero” film di Natale, si sente forte profumo di fiera delle banalità.

Muccino ci informa che ama i racconti di formazione ed è stato per questo attratto dal libro della Vangelista, che costringe i propri personaggi a guardarsi dentro, fare i conti con il proprio passato e diventare uomini. Peccato che ciò che vediamo nel loro profondo sia no-io-so.
La recitazione non aiuta; anche se come al solito tutti gli attori dichiarano quanto interpretare questo ruolo sia stato bellissimo, fuori dal comune, e che abbia dato loro la possibilità di mettersi alla prova, di abbattere barriere, di superare se stessi e migliorarsi nella loro arte, la piattezza ci affonda. L’unico ad emozionare qua e là è il bambino.

Le risate e i commenti in sala a scena aperta lo confermano: ad una interessante premessa del soggetto corrisponde una sceneggiatura inesistente e dei dialoghi da raccapriccio, vero motore di ilarità. Non si spiega come la scrittrice-sceneggiatrice abbia avuto la fantasia di martoriare volontariamente la sua opera narrativa. A condire, alcune scelte discutibili, come la lunghissima sezione di apertura in cui Silvio fa da narratore descrivendo ciò che i vari personaggi fanno in video. Didascalico, tautologico e ridondante. Neppure foneticamente interessante considerate le ripetute visite del nostro dal logopedista.

Ammirevole il coraggio che Muccino ha nel proporsi come autore cinematografico in un paese in cui l’arte va morendo. Uno dei pochi che ancora scrive, dirige e recita. I risultati fanno però presupporre che il ragazzo sia quantomeno acerbo, e che forse prima di lanciarsi a capofitto in opere bibliche sarebbe meglio si dedicasse ad uno solo dei settori di suo interesse, per approfondirne i meccanismi. Un Tarantino c’è già stato, e non è nato in Italia.

(Cristina Fanti)

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martedì 14 dicembre 2010

Tron Legacy

Per chi non ha visto il primo film questa storia è piatta e insulsa. Per chi invece ha familiarità con il prequel, ma di blando coinvolgimento, è più che altro un insulto. Prodotto Disney che scivola facilmente in un regno di pertinenza Chicco. Un intreccio da encefalogramma piatto. Personaggi con lo spessore di una velina (il foglio di carta, ma anche la soubrette se preferite). E’ superfluo contemplare il punto di vista degli aficionados del franchise; l’amore si sa, è cieco.

Il vecchio Tron datato 1982 è stato applaudito a ragion veduta per le sue implicazioni rivoluzionarie. Creato su un computer con 2MB di memoria, che un bambino delle elementari ormai non sa neanche immaginarseli, e con un procedimento certosino. Date le difficoltà tecnologiche di dettagliare gli effetti digitali, che non conoscevano comunque ancora il modo di essere mischiati con le immagini catturate dal vivo come invece facciamo ai giorni nostri, si è deciso di utilizzare il colore nero per nascondere le imperfezioni. Si è girato così in bianco e nero, su un set completamente nero; stampate le immagini su pellicola a forte contrasto, poi stratificata con vari livelli di copie positive e negative, queste sono state colorate a mano per donare loro connotati futuristici.

Il nuovo Tron si propone di raddoppiare il primato e di replicare, a distanza di trent’anni, la fortunata introduzione di tecnologie innovative. Ripetere la storia però non è facile. Ci provano comunque, convinti, vantando di essere il primo film in 3D realizzato con lenti e sensori da 35mm. Inoltre per la prima volta un attore, Jeff Bridges, che ritorna nei panni del Kevin Flynn già interpretato nel prequel, per essere digitalmente ringiovanito recita fra i suoi colleghi indossando un casco creato con uno stampo del suo viso e dotato di 52 sensori, che catturano le sue espressioni e le trasferiscono ad un modello realizzato con un patchwork di decine di sue vecchie foto. Interessante. Ma non saprei quantificare quanto pioneristico. La parola Avatar mi gira vorticosamente in testa.

All’opposto su alcuni tasti si è scelto di non picchiare diversamente dal passato, bensì conservare la matrice originaria. Il pesante bagno di nero nato all’epoca del primo capitolo dalla necessità, è mantenuto fino allo stremo. Dopo un’ora gli occhi, già oberati dagli appannati (indipendentemente da quante volte si tenta di pulirli con l’apposito panno) occhiali 3D, fanno fatica a distinguere cose e persone.
Il regista, laureato in ingegneria meccanica e architettura, affascinato dalle linee geometriche, ha serbato inoltre l’impianto visivo squadrato di stampo anni 80, sia come omaggio al suo predecessore, sia perché intrigato dalla possibilità di integrare diverse tipologie di oggetti di design, come ad esempio sedie barocche e neon nella casa digitale di Flynn. Il tutto in un misurato equilibrio, fortemente voluto, fra quegli elementi d’arredo in cui si può inciampare e un meno ingombrante blue screen.

Il 3D, utilizzato soprattutto all’interno del mondo digitale, a cui fanno da reggilibro un incipit e un epilogo in due dimensioni che si svolgono nel mondo reale, non è invadente ed è integrato in maniera quasi impercettibile, eccezion fatta naturalmente per i fastidiosi occhiali. Nei rocamboleschi combattimenti non ci sono dischi, armi di fiducia del protagonista e relativi nemici, lanciati contro il pubblico, né moto luminose che durante gli inseguimenti saltano fuori dallo schermo per farci nascondere dietro al nostro vicino. Kosinski ha usato la tecnologia più blasonata del momento in maniera intelligente, per arricchire l’esperienza visiva e non per essere l’esperienza visiva.

Il lavoro creativo è stato elaborato. Sono stati chiamati a collaborare per il design dei veicoli gli ingegneri delle più grandi case automobilistiche; i costumi, realizzati in gomma con inserti di lampade elettroluminescenti, anche in questo caso per privilegiare il realismo alla computer grafica, hanno necessitato di ricerche e sarti all’avanguardia; perfino alcuni scienziati sono stati disturbati per accertarsi che la storia narrata fosse conforme alle maggiori leggi scientifiche. Mi lascia basita dunque che da un impegno così importante sia risultato un prodotto tanto banale, per non dire terribile.
Si dice che al centro dei ragionamenti ci sia stata l’intenzione di rendere al meglio il peso del rapporto tra padre e figlio, ma sinceramente, dalle tre battute in cui questo tema viene sfiorato, non mi è sembrato che gli sceneggiatori abbiano avuto delle brillanti relazioni genitoriali cui ispirarsi.

Per tutti i film brutti della storia, nel trovare qualcosa da salvare, capita di fare i complimenti alla musica. In questo caso sono veri. Gestita interamente dai Daft Punk e vera protagonista, dal momento che il materiale narrativo è scadente, tocca a lei guidare il gioco fra un esperimento grafico e l’altro, come se fossimo sintonizzati su un promo di MTV.

Una nota positiva, in questo brodo riscaldato di eroi, antieroi, geniali scienziati, ragazzi prodigio e grandi topolone cibernetiche, il seguente picco di coraggio: tra i due protagonisti, giovani e fighi, finanche nella sentimentale scena finale, il film resiste dal far scoccare il più classico dei baci risolutori. Almeno questo cliché ci è stato risparmiato. Fino al prossimo sequel.

(Cristina Fanti)

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mercoledì 8 dicembre 2010

Le cose che restano

La fiction televisiva, concetto interessante. Raccontare lentamente in sei ore, ovvero quattro puntate, quello che si potrebbe raccontare con un po' di ritmo in una volta sola. Non è un'idea che mi fa impazzire; al contrario sono molto parziale alla parola Santamaria. Perciò partecipo alla maratona di questo che vuole essere un film epico, una sorta di romanzo storico, un Ivanhoe de noantri, prosecuzione ideale di quei La vita che verrà e La meglio gioventù che hanno tracciato negli anni passati i modi in cui l’Italia ha reagito a quattro decenni di menate politiche e compagnia cantando.

Questa volta arriviamo al presente, capolinea della trilogia. La scintilla è una casa, culla di una famiglia calda e fracassona. Borghese e luminosa, a seguito della tragica morte del figlio più piccolo, così come la madre reagisce al lutto scappando in una clinica, così la casa si svuota e rimane al buio. I tre fratelli sopravvissuti cercano di trovare ognuno la propria strada attraverso conflitti e rapporti che permetteranno loro di ripopolarla stanza per stanza, restituendole le sue funzioni vitali e trasformandola nel simbolo della possibilità di creare nuove forme di famiglia, non più legate al sangue ma al bisogno di un’identità esistenziale talvolta ancor più profonda.

Per lanciare questo messaggio di positività, restare nella quotidianità degli eventi e fare nel contempo un quadro generale della situazione italiana di questo preciso momento storico si scomodano talmente tanti argomenti che il risultato è un calderone di tematiche grosso e confuso. Fornisco un conciso sommario.

C’è una psicologa, con tutte le pesanti implicazioni di questo mestiere. Soprattutto essa tratta il caso di un militare che a seguito di un incidente ha perso la memoria, si parla di guerra. C’è un laureato in architettura che però va a lavorare in cantiere, ed ecco il precariato. C’è un funzionario ministeriale che si occupa di controllo dell’immigrazione e ci porta con lui ad uno sbarco in Sicilia. C’è un omosessuale che s’innamora di un uomo che ha una figlia, si affrontano le coppie gay e la paternità. C’è la madre di questa figlia che è una tossica senza fissa dimora, su un piatto d’argento droga e vagabondaggio. C’è un malato terminale. C’è un locale di spogliarelliste che nasconde un giro di prostituzione e di sfruttamento di straniere, una delle quali è brutalmente uccisa, guidandoci alla riflessione su una salma non identificabile che “tornerà al suo paese senza un nome e senza amici”. Ci sono un paio d’immigrate che cercano di ottenere un visto, un ulteriore pizzico d’integrazione culturale. C’è un aborto, tradimenti e divorzi, per parlare della vita e del valore della famiglia. C’è un architetto che indaga sugli abusi avvenuti in un orfanotrofio che sta cercando di restaurare, ombre di violenza; lo stesso architetto con il progetto dell’orfanotrofio cerca di vincere un concorso, per voi l’amministrazione pubblica. C’è una madre che impazzisce dopo la perdita del figlio, si medita sulle malattie mentali. Naturalmente poi c’è la morte di un diciassettenne, con tutte le conseguenze del lutto, e cioè la fiction stessa.
A coronare questo polpettone (nel senso di una pietanza fatta di tanti ingredienti, per carità), senza alcun motivo, durante una panoramica di un parcheggio, indugiamo per qualche lungo secondo su un pulmino dal quale scende un gruppetto di ragazzi down. Meno male, adesso non manca proprio niente.

L’impressione è che in Italia non si riesca a mantenersi su un nucleo narrativo solido, piuttosto quando si opta per progetti importanti come questo si sente sempre il bisogno di allargare lo spettro dell’indagine alla società tutta. E così ogni volta si producono film che durano mezza giornata e che per ovvi motivi hanno come unico sbocco possibile la televisione. Nonostante una disponibilità di tempo tanto generosa alcune situazioni sono ugualmente poco approfondite e nebulose. Il rapporto romantico fra un’immigrata e il poliziotto incaricato di sorvegliarla, su tutte, è superficiale, banale e assolutamente non declinato.

Considerato ciò la storia resta comunque scritta bene, uno o due personaggi sono molto intriganti e i dialoghi in alcune scene davvero sopra la media. Insomma non stiamo parlando di una soap con Gabriel Garko. Sicuramente e genuinamente un altro livello.
La musica è curata con zelo, bella la scelta di utilizzare tanta classica; alcune svolte registiche palesemente cinematografiche non passano inosservate; pulita la fotografia che ricerca riflessi arditi in scene come quella in cui il volto di un uomo si riflette  negli occhi della donna che ama, ed appare e scompare ad ogni battito di ciglia.

Le linee narrative migliori e i momenti più toccanti sono riservati all’amore, delicati e sentimentali al punto giusto, a onor del vero ben fatti, tra le coppie Balducci-Liskova e Santamaria-Neuvic. Proprio Neuvic e Fantastichini regalano performance da brividi.

Quest’ultimo dichiara di avere una visione rosselliniana della TV che dovrebbe educare le masse, aumentare la qualità della loro coscienza civile, insegnare a combattere l’intolleranza, a promuovere l’integrazione e l’armonia; proprio quello che ottiene a suo parere Le cose che restano. Non condivido, credo invece che questo prodotto rischi troppe volte di ottenere l’effetto contrario, di essere noioso e di scoraggiare in ultimis lo spettatore. In tutta onestà se non fossi stata invitata a vederlo senza soluzione di continuità in una sala cinematografica, e non avessi accettato causa casting furbetto di Santamaria, i troppi elementi di piattezza dell’intreccio, la mancanza di colpi di scena, la poca affezione sviluppata con la vicenda e soprattutto la vocazione troppo generalista della serie non mi avrebbero affatto invogliato a collegarmi di settimana in settimana per gli episodi successivi.

Le cose che restano andrà in onda in prima serata su Rai Uno dal 13 Dicembre. Ve lo consiglio, come blando sonnifero.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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sabato 4 dicembre 2010

Criccintervista - Johnny Knoxville e Chris Pontius, Jackass 3D

Una sala molto candida e accogliente, un perfetto tavolo rotondo, acqua, bicchieri e mentine. Ci aspettiamo che da un momento all'altro ci venga vuotato un secchio di fango in testa o qualcuno alle nostre spalle ci seghi d'improvviso le gambe della sedia. Invece Johnny Knoxville e Chris Pontius arrivano pacati e sorridenti, limitandosi ad un semplice insulto nella nostra lingua, così, per ricordarci che siamo qui per parlare di Jackass.

Si comincia con le curiosità più ovvie mentre Johnny pondera con concentrazione le sue risposte e Chris prende a disegnare fiamme tribali su una cartellina, lanciando un occasionale sguardo spiritato in giro per la sala.

A Jackass è tutto vero e realizzato con l'unico scopo di divertirsi e far divertire. Niente ragionamenti, niente aspirazioni altre. Niente di artistico, a parte, ci tiene a sottolineare Knoxville, qualche pene qua e là.
L'idea è quella di un cartone animato vivente, ispirato all'animazione Warner, come Tom & Jerry e Road Runner. Ma tutto nasce in realtà dal padre di Johnny, proprietario di una fabbrica di pneumatici che amava sorprendere i propri dipendenti con guerre di pistole giocattolo e lassativi nel latte. Un vero modello. Di rimando, alla sua progenie lo stesso Knoxville lascia fare scherzi ma non esperimenti pericolosi. Chi l'avrebbe detto che uno che si lancia da una collina con una moto d'acqua potesse essere un genitore coscienzioso.

Jackass è pura stupidità, chi guarda la serie, ci confessa il suo creatore, lo fa' perché gli ricorda come passa o vorrebbe passare il tempo con i propri amici, ma soprattutto perché è affezionato alla truppa, con la quale s’identifica epidermicamente.

Si gira per sette mesi e mezzo, montando il materiale lungo la strada. Due settimane di lavoro alternate ad altrettante di riposo utili a rifocillare il corpo e la mente dalle continue tensioni di chi è costretto a proteggere costantemente la propria vita dagli attacchi a sorpresa dei colleghi. Noi siamo al sicuro però, ci tengono ad aggiungere, colpi al cuore e ossa rotte sono un regalo che si fanno solo l'un l'altro.
Ci assicurano di vivere lo show anche nella vita, anzi, è proprio a telecamere spente che il gioco si fa duro e le situazioni cominciano a sfuggire di mano. Cioè, più fuori del vulcano-ano? Qualunque cosa sia non la voglio sapere.

Il bilancio del film è in attivo, con il 25% di donne in più in sala rispetto all'ultima uscita (chi vorrebbe perdersi l'opportunità di vedere dei peni in 3D?) e con un trauma cranico, spalla slogata, punti sulla mano, colpo della strega e dente saltato causa dildo-bazooka (un vibratore volante lanciato con un fucile ad aria) sul referto medico di Knoxville.

Ci vuole esercizio, i protagonisti si tengono in forma come possono per far fronte all'impegno fisico. Guardo nei loro occhi e capisco che molto ha a che fare con bicipiti torniti ad alzate di gomito e addominali scolpiti a forza di risate.
Anche la messa a punto dei vari numeri non è sempre semplice, trovare le giuste reazioni alle candid-camera può richiedere molto tempo e dedizione. Per la scena in cui nonno e nipote si succhiano la faccia e si tastano le chiappe sono stati fatti prima alcuni tentativi in un ristorante, sperando che i commensali intervenissero, e poiché invece ognuno continuava a fissare il proprio piatto la banda ha dovuto cambiare strategia, trasferendo la scenetta sulla strada.

Si sostiene che negli anni il format sia migliorato, con più energia e maggior spirito. Dando più spazio a tutti i membri del gruppo, meglio rappresentati rispetto al passato, si permette a Knoxville di rifiatare un po’ e si rinfrescano le idee. Ciò che divertiva un tempo forse ora non diverte più, ma con la maturità dei personaggi hanno acquistato nuovo spessore i contenuti. Non posso credere di aver appena scritto una frase del genere su Jackass...
Chris Pontius ci dice che Steve-O la chiama una malattia progressiva. E questo penso riassuma il tutto effettivamente molto bene.

Arriva poi il momento degli argomenti più impegnati.
Johnny racconta che dopo Jackass 2 ha preso una pausa di tre anni dalla recitazione per produrre alcuni documentari, ma adesso ha intenzione di riarruolarsi sulla nave dei film hollywoodiani. Chris Pontius, che ora è intento nella rappresentazione di un messicano col sombrero, invece si può ammirare in Somewhere di Sophia Coppola.

Non c'è più MTV nel futuro di Jackass, ma se siamo fortunati forse un altro film.
Sull'inutile 3D, mi permetto questo guizzo opinionistico, Knoxville sostiene di essere stato inizialmente scettico, ma quando ha visto i marchingegni costruiti appositamente per lo show così da permettere di continuare a registrare il prodotto come lo si era sempre fatto, senza che il cast dovesse preoccuparsi delle telecamere, ne è stato conquistato. Pontius esce dalla sua trance aggiungendo che finalmente è nata la tecnologia che permette a Jackass di esprimersi nella sua pienezza. Grossi punti interrogativi sui nostri volti, e anche sui vostri se vedrete il film, vi accorgerete che di tridimensionale c'è ben poco, a parte, appunto, qualche pene.


(Cristina Fanti)

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venerdì 3 dicembre 2010

We Want Sex - Made in Dagenham

Atmosfere da Billy Elliot per questa commedia che cosparge di zucchero a velo e confettini colorati un evento storico di portata internazionale, condensando una storia di rivendicazioni sociali in una girandola di situazioni e personaggi che però mancano del mordente necessario per essere considerati speciali.
L’industria cinematografica inglese conferma ancora una volta di amare i film in costume nostalgici e accattivanti, e incarta insieme commedia e dramma con un bel fiocchetto dalle nuance anni 60.

Questa è Dagenham, anno domini 1968. Nella fabbrica della Ford un gruppo di 187 donne cuce rivestimenti per sedili di automobili in uno scantinato al cui interno l’acqua piovana gocciola dal soffitto e per il caldo si lavora in reggiseno, ciarlando come dal parrucchiere e mettendo in imbarazzo qualsiasi collega di sesso maschile irrompa in tale regno. Quando per loro si prefigura un abbassamento del salario, sostenute da un affettuoso sindacalista (Bob Hoskins), questo drappello di cotonate elegge la timida e pacata mamma di famiglia Rita (Sally Hawkins) come propria rappresentante al tavolo delle contrattazioni. Inaspettatamente la piccola donna stravolge le carte in tavola e con un impeto di risolutezza chiede che il salario femminile venga portato al livello di quello degli uomini, dichiarando sé e colleghe ufficialmente in sciopero. La sua determinazione contro lo scetticismo dei loro datori di lavoro, colleghi e persino mariti le aiuterà a lasciare un marchio nella storia d’Inghilterra e aprirà la strada alla legge sull’uguaglianza del trattamento economico due anni dopo.

Il film è un insieme d’illuminazione pittoresca e graziose performance che accecano e nascondono qualsiasi forma di reali ambiguità, conflitto e complicazioni. La scelta non è scavare nel contesto, e questo è chiaro fin dalle prime inquadrature, ma non si può pretendere di mostrare credibilmente la storia se con essa si gioca distratti e veloci. Spariscono per non offendere nessuno ogni amarezza e senso di oppressione generalmente associati alle lotte industriali, e così ci si trincera dietro l’assoluta condivisibilità della tematica centrale; chi se la sentirebbe di essere in disaccordo con il desiderio di uguaglianza? Il consenso facilmente si forma sull’idea che combattere il maschilismo sia un’istanza apolitica.

Mantenendo il tono volutamente poco complicato e solare, e facendo in modo che tutti gli antagonisti abbiano modo di redimersi, ogni sentimento rivoluzionario e potenziale drammatico sono succhiati via, ottenendo così la rappresentazione più leggera che si possa immaginare sul tema del rischiare tutto per una giusta causa.

Sally Hawkins è spinta oltre il limite della naturalezza quando a ogni frase trema d’indignazione con gli occhi gonfi di disprezzo. Del suo talento è fatto molto buon uso invece nelle scene in cui interagisce con il marito.
Questa tendenza all’esasperazione si ripete anche nella sceneggiatura stessa, che sottolinea molto marcatamente temi e chiavi di svolta.
Ogni personaggio ha i suoi quindici minuti di gloria e così tutti sono contenti di questo prodotto: gli attori, perché hanno modo di lavorare e mettersi in mostra; il regista, perché un attore soddisfatto vuol dire il 70% di problemi in meno; e il pubblico, perché è appagato da uno sfarfallio di colori primari. Eccetto che il pubblico non è contento affatto.
Il film è sicuramente piacevole agli occhi ma resta superficiale. Puntando tutto sul divertimento piuttosto che sui saldi ideali seppur presenti nella storia, e così attuali, è reo di populismo e alla ricerca di un facile successo, ma tutto ciò che riuscirà a ispirarvi è solo una flebile risata.

Alcuni punti semi-femministi sono lanciati qua e la ma tuttosommato questa vuole essere ed è un’avventura calda e idealista che sconfigge la dura regola delle difficili battaglie, spesso perse, dei lavoratori.
Alla Festa del Cinema in sala con noi erano presenti alcune delle vere protagoniste della rimostranza. Chissà cosa avranno pensato rispetto a questo gesto che ha definito la loro vita, una generazione, e un po’ il mondo intero, e che ora passa davanti ai loro occhi come una sfilata di capi d’abbigliamento vintage durante la quale poco è mancato che tutto il cast cominciasse a sculettare sulle note di “Hot Chocolate” a la Full Monty.

(Cristina Fanti)

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