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sabato 16 aprile 2011

Cappuccetto Rosso Sangue - Red Riding Hood

C'è un gioco che si chiama Lupus in tabula.
Un gruppo di amici si siede in cerchio e si assegnano con discrezione dei ruoli da interpretare: gli innocenti villici, la veggente, il pazzo, il prete. E il lupo. Tutti chiudono gli occhi e nella notte quest’ultimo colpisce uccidendo uno dei compagni. Al risveglio il villaggio inaugura un processo per cercare di scoprire dietro il volto di chi di loro si celi il mostro.

C'è un film che si chiama Cappuccetto Rosso Sangue (grazie ai nostri fantasiosi traduttori, in paesi meno nevrotici semplicemente Cappuccetto Rosso) che è l'adattamento cinematografico di tale gioco, né più né meno, con l'eccezione dell'aggiunta del personaggio della nonna, la cui unica funzione narrativa è quella di donare a Valerie (Cappuccetto appunto) una cappa color rosso (rosso sangue visto che siamo in Italia).

La differenza fra il primo e il secondo è che il gioco ti coinvolge, il film ti distrugge.

Catherine Hardwicke, di fama twilightiana, ma ben più navigata nel mondo del cinema, ha preso una svista. Sembra che stia dirigendo un prequel della famosa serie dei vampiri senza capire che il traino di questa vicenda sarebbe dovuto essere la suspance, e non una storia d'amore. Se l’ardimentosa alchimia tra mostri e cottarelle ha funzionato una volta, perché sfidare la sorte?
Un gotico triangolo amoroso fra una bella adolescente dalla famiglia tutta particolare e due giovani del suo stesso villaggio, uno ricco e misterioso, l’altro falegname e... possibilmente lupo mannaro. Suona familiare? Lo è.

Questa pellicola non prova nulla, a parte che la regista conferma di saper scegliere la giusta musica rock da abbinare alle scene d’azione.
In un paio di passaggi si accenna quasi a un montaggio da thriller, ma per il resto abbiamo tutto il tempo di studiare molto dettagliatamente che tipo di applicazione è stata utilizzata per il trucco degli occhi degli attori.
L’attesa dello smascheramento del lupo è costruita decentemente ma spezzata, masticata e risputata quando il lupo stesso appare. Decenni di sviluppi tecnologici e non usarli.
Quando finalmente arriva, la rivelazione della sua identità per lo meno stupisce, ma senza grandi risvolti di meraviglia. Non entrerà di certo nella top ten dei migliori colpi di scena hollywoodiani.
La trama è stata messa sotto terapia astringente e laddove si tenti di costruire dei sub plot si sentono volare grossi sbadigli. I corteggiatori della nostra protagonista fra le altre cose, diciamocelo, sono brutti. Le donne del cast, Virginia Madsen e Julie Christie, sono troppo occupate a non spettinarsi.

In sostanza sarebbe bello invitare la Hardwicke a revisionare il film, ma questa volta con occhi grandi, per vederci meglio.


(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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sabato 18 settembre 2010

Splice

Non sono la più grande fan di Adrian Brody ma devo dare a Cesare quel che è di Cesare, quando sullo schermo c’è lui sono pervasa da un improvviso, irreversibile senso di attrazione e di pace. Ogni volta mi chiedo come ci riesca. Non fa eccezione questa pellicola, in cui interpreta uno scienziato dal gilet di Willy Wonka a cui piace ascoltare musica rock ed in larga misura fare sesso.

Insieme alla sua compagna è a capo di un progetto di splicing, ovvero gioca a tetris con il DNA di diverse specie animali. Quando la loro ricerca comincia a farsi concreta e la società per cui lavorano ha bisogno di spingere sull’acceleratore per ottenere finanziamenti, Brody e la sua bella (Sarah Polley), in gran segreto, aggiungono alla loro mistura un codice genetico tutto speciale: quello umano. E così sorpresa sorpresa nasce Dren, che all’inizio rassomiglia ad una coscia di Chianina e via via invecchia con una rapidità esponenziale, diventando infine un incrocio fra una bella topa ed una gallina gigante, realizzata comunque con effetti digitali lodevoli, efficaci ma discreti. Dren è un ragazza un tantino irascibile, ha la forza muscolare di Hulk ed una coda dotata di artiglio degna del re scorpione. Attraversando velocemente tutte le fasi della vita, dall’infanzia alla maturità, passando per l’adolescenza, Dren sviluppa un rapporto complesso e sfaccettato con i suoi “genitori”, che ricambiano naturalmente con delle attenzioni altrettanto peculiari,vista la natura non proprio consueta della loro figlioccia.

Un thriller dunque, ma anche una delicata storia di coppia. Siamo davanti ad uno stufato a base di Frankenstain steso su un letto di Rosemary’s baby, farcito con una buona regia ed un pizzico di originalità (che non guasta!).

I temi della gravidanza e del saper essere genitori sono sottilmente inseriti qua e là lungo il nostro viaggio. Elsa (Polley) scottata da un’infanzia difficile riversa sul suo mostriciattolo tutte quelle cure ossessive che non ha mai ricevuto. Clive (Brody) chiuso nelle sue preoccupazioni di carattere etico vive e lascia vivere, con un atteggiamento molto pragmatico che porterà la coppia a scontrarsi. Nessuno dei due ha una connotazione nettamente positiva, ed è questa la caratteristica che maggiormente li rende autentici e dona al film quel tocco di sincerità che porta una necessaria ventata di freschezza al panorama del thriller contemporaneo. Riusciamo infatti a fare il tifo per loro e contemporaneamente a detestarli, toccando delle punte di disgustata incredulità per il loro orribile sfacciato oltrepassare alcuni capisaldi di moralità.

Delphine Chaneac lavora come un’attrice del muto, in un gioco di sguardi e piccoli tic del corpo che riescono nel difficile compito di creare una connessione emotiva fra il pubblico ed il suo inusuale personaggio senza risultare ridicola o smielata.

La mano del regista è sicura e fluida e si muove senza pause né monotonia in quegli ambienti dalla luce malata, come laboratori e stalle abbandonate, in cui si svolge la storia.

Quello che per larga parte è un ottimo prodotto, sebbene dichiaratamente di genere realizzato con intelligenza e sapientemente mantenuto oltre il livello della banalità, subisce purtroppo nella sua ultima parte un cambiamento di rotta verso atmosfere più tradizionali. Si passa da un brillante thriller cerebrale ad un più tipico horror “corri più che puoi” (con shoccante risvolto erotico) dall’elevato fattore di prevedibilità che stride, anche se non disturba.

Splice non ha paura né di abbracciare picchi di sentimentalismo verso la creatura protagonista né di portare i suoi personaggi e spettatori in territori terribilmente inquietanti. Contrariamente alla maggior parte dei film horror statunitensi dal budget sostenuto, siamo davanti ad un raro esempio di come si può fare bene.

(Cristina Fanti)

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venerdì 17 settembre 2010

Chloe

Sesso e bugie. Una storia di desideri proibiti e manipolazione della fiducia che poco a poco è spinta in una spirale discendente verso il cliché (Attrazione fatale al femminile). La strada è lunga e a quanto pare il freno è rotto perché si continua a volteggiare sempre più giù, giù, fino ai titoli di coda.

Julianne Moore è Catherine, un'affascinante ginecologa di successo ossessionata dal sospetto che il marito, Liam Neeson, la tradisca. Per testare la fedeltà del consorte ingaggia una prostituta di nome Chloe (Amanda Seyfried) che sedurrà l'uomo (per altro senza molte difficoltà) e le riporterà i dettagli di ogni incontro. Tutto ciò naturalmente aumenterà la gelosia di Catherine che sfogherà la sua tensione in modi inaspettati, facendo risvegliare in lei sensazioni da tempo sopite e lasciandola smarrita.

Per essere schietti, quando Catherine comincia a perdere il controllo, la stessa cosa accade al film. Come su una livella, all'aumentare della perversione corrisponde una minore credibilità; ed in tutto ciò è fin troppo facile rimanere sempre qualche passo avanti rispetto all'evolversi della trama. Seppure lo spettatore si sforzi di restare dentro agli avvenimenti, strizzando gli occhi come a far crescere la storia per magia, il finale distrugge tutto e il suo viso si distende al pensiero del letto caldo che a casa lo aspetta.

Catherine, con le paranoie sull'eccessiva simpatia del marito verso il gentil sesso e le preoccupazioni sulla bellezza che scompare, è sicuramente il personaggio più ricco di sfumature, all'opposto degli altri, poco raccontati, privi di motivazione. Tristemente questi aspetti intriganti della sua personalità sono relegati a sotto-testo e sono eclissati da più classici (e noiosi) effetti da thriller.
Liam Neeson ed Amanda Seyfried non hanno molto su cui lavorare vista la natura ambigua dei loro personaggi e delle loro azioni, vedendosi consegnati ad un ruolo di sostegno.

Da notare l'impegno delle due attrici per una causa persa: spinte da forte senso del dovere entrambe arrivano a spogliarsi ripetutamente, forse in questa storia hanno visto qualcosa, io no.

(Cristina Fanti)

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