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domenica 8 maggio 2011

RED

RED sta per “Retired Extremely Dangerous”, pensionato pericoloso diremmo noi. Da ciò già capiamo che il film schiaccia pesantemente l’acceleratore della fantasia più sfrenata. D’altronde stiamo attingendo all’immaginario fumettistico della DC Comics, per cui apriamo la nostra mente a tutto.

Bruce Willis si alza dal letto e mostra una certa rotondità a livello addominale. Da ciò capiamo che un’era è finita. Ma speriamo, sempre, che a un certo punto lo si ritrovi a indossare soltanto una canotta sudicia e strappata. Questo, perché lo sappiate, non avviene. La cifra stilistica di questo action con deambulatore, invece che attraverso i tradizionali muscoli oliati in evidenza, è espressa nel quantitativo di metallo sparato dalle più varie armi da fuoco. Per la legge della compensazione forse. A pochi minuti dall’inizio siamo bombardati da una parata di bossoli inusitata in una delle scene assolutamente più fuori di testa del genere.

E’ una nuova giovinezza dunque, che scavalca i limiti dell’azione targata anni 90, di cui questo film è erede in tutto per tutto, in una sorta di fanta-action al limite fra la realtà e Spiderman. Sempre in bilico tra azione e commedia, com’è ormai in uso da qualche anno per restituire spinta ad un genere che da sempre si è retto sul modello di un eroe di fine millennio tutto muscoli e ferite che ora non esiste più. I bodybuilder di un tempo hanno perso i capelli, sono ingrassati e diventati governatori.

Qualcosa dei vecchi tempi è però sopravvissuto, e cioè che la trama non conta. Sappiamo che Bruce, sebbene in pensione, è ricercato dai cattivi in quanto testimone di pesanti crimini di guerra all’epoca in cui era ancora un agente attivo della Cia, ma al momento della resa dei conti, e delle consuete spiegazioni finali, tutto si risolve in una supercazzola. Peraltro riuscita male.
Basti sapere che come lui ci sono altre persone in pericolo, i suoi vecchi compagni di battaglia e l’operatrice telefonica dell’ufficio pensionistico di cui si è innamorato, Sarah. Per questo bisogna riunire la banda, acciuffare la bella in pericolo e sconfiggere il nemico.

A parte alcune scene d’azione esaltanti (che però purtroppo sono tutte nel trailer), il film non mostra quel mordente che ci si aspetta dopo l’apertura ad alta concentrazione ferrosa. Per rimettere insieme i pezzi della vecchia macchina da guerra, ad esempio, la comitiva viaggia attraverso gli Stati Uniti, e ciò è banalmente sottolineato da cartoline che appaiono in sovraimpressione fra una tappa e l’altra. Un espediente poco fantasioso e decisamente televisivo a cui diciamo basta. Nelle scene non mostrate dal trailer, a parte uno John Malkovich molto sopra le righe e un paio di scontate ma funzionanti battute a stelle e strisce sulla vecchiaia – nonnetto, chiamano Frank, ma lui farà cambiare loro idea - la pressione è bassa e quasi necessita un controllo dal cardiologo.

Il sempreverde Bruce Willis fa quello che da decenni gli riesce meglio, con un paio di acciacchi in più. Tira due pugni e spara quel sorriso mezzo storto che conquista. Morgan Freeman è praticamente una comparsa. Mary-Louise Parker esercita i muscoli dell’ironia nella parte del sacco di patate trascinato qua e la, gli occhi e le orecchie del pubblico trasportati in medias res. Fa ridere perché ci s’immedesima con la sua normalità. Helen Mirren si trasforma in una Martha Stewart da trincea.
Karl Urban è l’unico “giovane” del cast. Pettinato da Hugh Jackman e vestito da primo della classe rappresenta il moderno agente segreto, programmato per uccidere e ingessato dalle regole. Di grande impatto, e inaspettata bellezza.

RED piacerà agli uomini e alle donne rustiche per le sparatorie, alle restanti donne per gli attori sexy e ai bambini per John Malkovich. Vi farà trascorrere due ore di piacevole encefalogramma piatto e alla fine vi sembrerà come un’ape che vi ha punto con la forza di una zanzara. Una grattatina, e avanti il prossimo.

(Cristina Fanti)

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domenica 1 maggio 2011

Machete

E’ nato prima l’uovo o la gallina? Nel grande schema dell’universo a questa domanda non c’è risposta. Nell’industria cinematografica si. Il primo è il film, poi il trailer. Quando l’ordine viene invertito è probabile che qualcosa vada storto.
Nel 2007 Rodriguez si diverte con il suo compagno di merende Quentin Tarantino a inframezzare il loro Grindhouse con ironici trailer immaginari di film inesistenti.
Passano gli anni, uno di loro diventa realtà, e in qualche modo l’ironia si perde.

L’inizio del film è promettente. Machete, un agente federale, combatte la battaglia del giusto contro un trafficante locale, Steven Segal. Si, quello Steven Segal, con indosso un centinaio di chili di troppo di lipidi complessi. Tutto nella scena di apertura è conforme agli standard del genere: gli angoli di ripresa, la saturazione del colore, i graffi alla pellicola, le decapitazioni, il sangue, le donne nude, chi più ne ha più ne metta. In pieno stile exploitation, molto goloso per chi ne è fan. A seguito di questa iniezione di violenza con abbondante scarica di sudicia aggressione visiva, il film collassa.

Tre anni dopo il prologo Machete fa l’operaio in Texas e viene ingaggiato per commettere l’omicidio del Senatore fanta-razzista Robert DeNiro. Si scoprirà che è stato incastrato, e che come regola generale è meglio non far arrabbiare qualcuno che somiglia a Danny Trejo, il quale ovviamente non la prende bene e si lancia in una corsa alla vendetta. Tutta la storia di qui in poi consiste nel tentativo di Machete di stare un passo avanti rispetto ai suoi nemici, che aumentano a vista d’occhio.

Robert Rodriguez, regista, autore, produttore e montatore della pellicola, avrebbe tratto serio beneficio da qualche taglio in più. Il film è oppresso dall’ingombro di un fiume di personaggi e da una trama tortuosa che sottrae minuti preziosi di presenza sullo schermo al viso rugoso del suo protagonista. Alla stregua di quel che successe per C’era una volta in Messico, con cui Rodriguez puntò all’epos ma si scordò che la sua forza risiedesse nel bagno di sangue.

Tutto ciò diventa particolarmente frustrante quando quello che del film funziona, funziona dannatamente bene. Le scene d’azione sono coinvolgenti e creative, e il sangue zampilla a secchiate senza però disgustare. Alcune battute sono molto divertenti, e se ne sente la mancanza nei frequenti momenti in cui il ritmo stagna nel cercare di trovare un senso logico agli avvenimenti attraverso i dialoghi. Innanzitutto, un senso logico non c’è, secondo poi, il film non ne ha minimamente bisogno.

Il personaggio di Lindsay Lohan, che praticamente interpreta se stessa, figlia di un uomo benestante, drogata e ninfomane, fenomeno mediatico di YouTube, potrebbe essere asportato completamente. Michelle Rodriguez, una militante di stampo guevariano, tant’è vero che si fa chiamare Shé, e Jessica Alba, una spietata agente del dipartimento d’immigrazione di frontiera, che però mostra di avere un cuore, avrebbero potuto essere combinate in un unico personaggio. Il villain di DeNiro sarebbe dovuto essere centellinato con maggiore parsimonia, il suo impatto è infatti inversamente proporzionale ai minuti di presenza.

A onor del vero quando Machete incastra termometri da arrosto dentro le persone, o si lancia dai piani alti di un ospedale usando gli intestini di un uomo come liana, o ancora quando Jessica Alba si scontra con un energumeno mascherato da wrestler usando come arma un paio di scarpe di vernice rossa tacco 12, ci si dimentica di tutti i problemi. Fatto è che questi a fasi alterne si ripresentano.

Il maggiore è che il film vuole prendere posizione rispetto al dibattito sull’immigrazione, ma il suo intervento praticamente si riduce ad un crasso, inutile “non siate razzisti con i messicani”.
C’è una sorta di distacco fra lo schermo e lo spettatore, l’atmosfera in sala manca spesso di slancio. Questo Machete sembra affilato come un coltello da burro.

(Cristina Fanti)

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venerdì 8 aprile 2011

Limitless

Una metafora dei nostri tempi. “E se una pillola ti rendesse ricco e potente?” Il sogno americano, la sovranità intellettuale e di mezzi rispetto ai vili consimili. Ecco così che postulata l'ipotesi, il teorema si risolve con un metodo assolutamente contemporaneo.

Uno scrittore che ha accesso all'intero potenziale del suo cervello attraverso l'assunzione di una droga che ne rende le funzioni, appunto, “illimitate”, abbandona i suoi lodevoli sogni di realizzazione artistica, che un tempo lo avevano fatto rinunciare perfino all’amore, e s’immola all’altare del dio denaro. Molto in fretta per giunta, e con che facilità!

Iniziata la scalata al successo grazie al suo (illegale) asso nella manica comincia a scoprire che come sempre per ogni scorciatoia c’è un prezzo da pagare. Stiamo citando l’attore protagonista, Bradley Cooper, che dopo la proiezione ci ha parlato del film. Nella vita, per non correre rischi, non ne prende, ma il suo personaggio invece ci naviga a vele spiegate.

Un’avventura iper-attiva, iper-luminosa, iper-grottesca, iper-panoramica, tratta da un libro che curiosamente non ha lo stesso finale. Sulla carta stampata Eddie Morra, il nostro simpatico e belloccio tossico d’alto bordo, si ritrova solo e squilibrato ad aspettare la morte in una casa buia; nei cinema è invece un vincitore che strizza l’occhio al dubbio sulla sua incerta onestà, ma che ciò nonostante si tiene stretto, e si gode, i suoi allori. Cooper sostiene che tale cambiamento è stato pensato per concludere il film con lo stesso spirito propositivo e leggero con il quale inizia. Ma viene presto in mente che anche una certa abitudine del cinema mainstream a non ammettere nuance e a farsi specchio quasi esclusivamente delle realtà invincibili possa averci messo il suo zampino.

Il che peraltro fa a cazzotti, e in un film così questa metafora ci sta proprio bene, con una regia che è invece abbastanza fuori dagli schemi. Tra giochi d’inquadrature e movimenti di macchina veloci attraverso, oggetti, edifici e mezzi di trasporto, il regista si trastulla con flashback e inserti quasi Eisensteiniani.
Segno particolare un pittoresco quanto elementare espediente volto a identificare le fasi umorali dei personaggi: l’esasperato cambio di luce ogni qual volta questi siano sotto l’effetto della pillola miracolosa, che non è blu ma trasparente, e che vira l’immagine tutta in un’aura dorata, come in un mondo di dei.

A proposito di divinità, Robert De Niro interpreta un magnate della finanza che intreccia la sua strada con quella di Eddie. Poche scene, poco pathos, ma la solita presenza che cattura l’occhio dello spettatore dentro al suo.

A tirare le somme Limitless è un film grasso e fresco come una torta gelato che tratta la corruzione dell’essere umano cospargendola di zucchero a velo. Solo le donne, anche quelle che provano la pillola e ne accarezzano l’ebbrezza, sembrano sottrarsi al suo potere. Che non ne abbiano bisogno? Sarà il caso di rivedere la teoria Darwiniana?

(Cristina Fanti)


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giovedì 17 febbraio 2011

Sono il numero quattro - I am number four

I giganti calvi con tatuaggio tribale al posto dei capelli, branchie intorno al naso e denti dall’aspetto cariato ci sono. La stellina del tv-show del momento anche. Musiche di grido direttamente da MTV ad accompagnare pirotecniche esplosioni. Petti gonfiati, addomi scolpiti ed effetti speciali. Un cocktail gustoso, colorato, e con la fragolina a bordo bicchiere, ma shakerato con la vodka del discount, come quello dispensato a ripetizione, ormai per pochi spiccioli, dai nostri teleschermi. Con la differenza che questa volta siamo al cinema, di fronte ad un lungo, glorificato, episodio di telefilm.

Buffy l’ammazzavampiri incontra Heroes. Fratello del primo causa personaggi malvagi poco credibili, caricati al massimo nelle loro caratteristiche mutanti, che poi si risolvono nella semplice, piccola alterazione di alcune forme umane. Ancora si sente l’odore del silicone ed è calda sulla pelle degli attori l’impronta digitale del makeup artist. Cugino del secondo per l’impegnativa avventura di formazione di colui che riceve dei poteri senza sapere come usarli e deve aggiustare la sua vita a questo dono. Atmosfere buie e acrobazie fenomenali, con l’auspicato potenziale d’innalzo del sex appeal del protagonista per impennare i risultati al botteghino.

Una sorta di genero di Twilight, perché frutto di una fatica letteraria, neanche a farlo a posta una saga, e per quel suo protagonista un po’ outsider che alla prima occhiata fa scendere l’entusiasmo ma alla seconda la gonnella, rivelandosi di un altro mondo, uno speciale. Molto poco speciale invece la sua performance, che tutto sommato non è spiccata come i suoi muscoli, e lascia un buco nell’ordito.

Lo sfortunato erede di un mondo distrutto è costretto a nascondersi sulla Terra e a cambiare scuole come un normale ragazzo cambia t-shirt. Il suo nome è inventato, la sua identità è in realtà legata a un numero, il Quattro, anche se non si capisce bene perché. Nove sono i superstiti del pianeta Lorien e i terribili calvi di cui sopra li stanno eliminando, senza motivo, in ordine crescente. Fin ora hanno avuto la meglio sui primi tre di loro e per questo John, insieme al suo protettore Henri, decide di mischiare un po’ le carte trasferendosi ancora una volta. Nel suo nuovo liceo, popolato da figurine scollatesi dall’album della banalità, il quoterback, la biondina e il nerd, è necessario mantenere un basso profilo, cosa molto difficile se ti si accendono i palmi delle mani come schermi dell’iPhone e se puoi lanciare in aria persone e macchine della polizia come fossero carte da gioco. Diciamo che Numero Quattro incontra grossi problemi a non finire su YouTube.

Insomma, ci stanno raccontando una storia adolescenziale corretta, come fu per The Faculty nel 1998 e come è per tanti telefilm ai giorni nostri, da quando il binomio scuola e vampiri ha creato più assuefazione di quello caffè e sigaretta. Una base su cui si può lavorare, ma che Caruso e il suo produttore Michael Bay non sanno ottimizzare, lasciandosi prendere la mano dalla computer grafica senza darle il sostegno necessario da parte della storia e dei personaggi affinché questa ci lasci senza fiato. Tradiscono a suon di raggi laser lo spirito inizialmente evocato nei primi minuti di film, quello di un incontro ravvicinato molto radicato nella realtà. Vorrebbe essere il nuovo Tranformers (il primo naturalmente), ma in nulla riesce a sollevarsi sopra la media.

Sono il numero quattro non sarà il numero uno. Alcuni sinceri sentimenti che rappresenta, come confusione, rabbia giovanile e ricerca dell’identità, avrebbero potuto dare risultati inaspettati se sapientemente mischiati ai suoi elementi fantascientifici. Invece queste due locomotive, l’adolescenza e l’epica aliena, si muovono su binari paralleli. A volte sembra come se le pizze di due film diversi siano state mischiate in sala di proiezione.

(Cristina Fanti)

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martedì 14 dicembre 2010

Tron Legacy

Per chi non ha visto il primo film questa storia è piatta e insulsa. Per chi invece ha familiarità con il prequel, ma di blando coinvolgimento, è più che altro un insulto. Prodotto Disney che scivola facilmente in un regno di pertinenza Chicco. Un intreccio da encefalogramma piatto. Personaggi con lo spessore di una velina (il foglio di carta, ma anche la soubrette se preferite). E’ superfluo contemplare il punto di vista degli aficionados del franchise; l’amore si sa, è cieco.

Il vecchio Tron datato 1982 è stato applaudito a ragion veduta per le sue implicazioni rivoluzionarie. Creato su un computer con 2MB di memoria, che un bambino delle elementari ormai non sa neanche immaginarseli, e con un procedimento certosino. Date le difficoltà tecnologiche di dettagliare gli effetti digitali, che non conoscevano comunque ancora il modo di essere mischiati con le immagini catturate dal vivo come invece facciamo ai giorni nostri, si è deciso di utilizzare il colore nero per nascondere le imperfezioni. Si è girato così in bianco e nero, su un set completamente nero; stampate le immagini su pellicola a forte contrasto, poi stratificata con vari livelli di copie positive e negative, queste sono state colorate a mano per donare loro connotati futuristici.

Il nuovo Tron si propone di raddoppiare il primato e di replicare, a distanza di trent’anni, la fortunata introduzione di tecnologie innovative. Ripetere la storia però non è facile. Ci provano comunque, convinti, vantando di essere il primo film in 3D realizzato con lenti e sensori da 35mm. Inoltre per la prima volta un attore, Jeff Bridges, che ritorna nei panni del Kevin Flynn già interpretato nel prequel, per essere digitalmente ringiovanito recita fra i suoi colleghi indossando un casco creato con uno stampo del suo viso e dotato di 52 sensori, che catturano le sue espressioni e le trasferiscono ad un modello realizzato con un patchwork di decine di sue vecchie foto. Interessante. Ma non saprei quantificare quanto pioneristico. La parola Avatar mi gira vorticosamente in testa.

All’opposto su alcuni tasti si è scelto di non picchiare diversamente dal passato, bensì conservare la matrice originaria. Il pesante bagno di nero nato all’epoca del primo capitolo dalla necessità, è mantenuto fino allo stremo. Dopo un’ora gli occhi, già oberati dagli appannati (indipendentemente da quante volte si tenta di pulirli con l’apposito panno) occhiali 3D, fanno fatica a distinguere cose e persone.
Il regista, laureato in ingegneria meccanica e architettura, affascinato dalle linee geometriche, ha serbato inoltre l’impianto visivo squadrato di stampo anni 80, sia come omaggio al suo predecessore, sia perché intrigato dalla possibilità di integrare diverse tipologie di oggetti di design, come ad esempio sedie barocche e neon nella casa digitale di Flynn. Il tutto in un misurato equilibrio, fortemente voluto, fra quegli elementi d’arredo in cui si può inciampare e un meno ingombrante blue screen.

Il 3D, utilizzato soprattutto all’interno del mondo digitale, a cui fanno da reggilibro un incipit e un epilogo in due dimensioni che si svolgono nel mondo reale, non è invadente ed è integrato in maniera quasi impercettibile, eccezion fatta naturalmente per i fastidiosi occhiali. Nei rocamboleschi combattimenti non ci sono dischi, armi di fiducia del protagonista e relativi nemici, lanciati contro il pubblico, né moto luminose che durante gli inseguimenti saltano fuori dallo schermo per farci nascondere dietro al nostro vicino. Kosinski ha usato la tecnologia più blasonata del momento in maniera intelligente, per arricchire l’esperienza visiva e non per essere l’esperienza visiva.

Il lavoro creativo è stato elaborato. Sono stati chiamati a collaborare per il design dei veicoli gli ingegneri delle più grandi case automobilistiche; i costumi, realizzati in gomma con inserti di lampade elettroluminescenti, anche in questo caso per privilegiare il realismo alla computer grafica, hanno necessitato di ricerche e sarti all’avanguardia; perfino alcuni scienziati sono stati disturbati per accertarsi che la storia narrata fosse conforme alle maggiori leggi scientifiche. Mi lascia basita dunque che da un impegno così importante sia risultato un prodotto tanto banale, per non dire terribile.
Si dice che al centro dei ragionamenti ci sia stata l’intenzione di rendere al meglio il peso del rapporto tra padre e figlio, ma sinceramente, dalle tre battute in cui questo tema viene sfiorato, non mi è sembrato che gli sceneggiatori abbiano avuto delle brillanti relazioni genitoriali cui ispirarsi.

Per tutti i film brutti della storia, nel trovare qualcosa da salvare, capita di fare i complimenti alla musica. In questo caso sono veri. Gestita interamente dai Daft Punk e vera protagonista, dal momento che il materiale narrativo è scadente, tocca a lei guidare il gioco fra un esperimento grafico e l’altro, come se fossimo sintonizzati su un promo di MTV.

Una nota positiva, in questo brodo riscaldato di eroi, antieroi, geniali scienziati, ragazzi prodigio e grandi topolone cibernetiche, il seguente picco di coraggio: tra i due protagonisti, giovani e fighi, finanche nella sentimentale scena finale, il film resiste dal far scoccare il più classico dei baci risolutori. Almeno questo cliché ci è stato risparmiato. Fino al prossimo sequel.

(Cristina Fanti)

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