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giovedì 3 marzo 2011

Easy girl - Easy A

La sfilata lenta e regolare nei ben noti corridoi liceali d’irrilevanti commedie adolescenziali, i nerd della scuola, è stata negli anni occasionalmente ravvivata dal passaggio veloce di quel bellissimo giocatore di football o di quella bionda cheerleader, che hanno fatto girare molte teste. Parliamo delle fortunate rielaborazioni di classici riassettati in base all’ultima moda, che le donne di oggi citano religiosamente a memoria: Ragazze a Beverly Hills, ad esempio, Emma di Jane Austen, e 10 cose che odio di te, La bisbetica domata di quel tale William Shakespeare.

Easy Girl passeggia tra una classe e l’altra al cambio dell’ora tenendo a buon titolo la testa alta ed entra con convinzione nell’aula del club di letteratura. Non è un pedissequo remake de La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, piuttosto un'occhiata indiscreta alle tematiche del romanzo - ipocrisia, umiliazione, conformismo, codardia sociale, bontà individuale - all'interno di un liceo californiano dove il libro è inserito nel programma didattico.

Emma Stone, difetto di pronuncia incluso, confeziona un personaggio intelligente e sagace, che quasi ci si chiede come facciano i suoi ciechi coetanei a non trovarla attraente. Ma questa domanda ce la siamo posta un po' tutte crescendo e la risposta è sempre stata la stessa. Gli uomini in adolescenza non posseggono il lume della ragione.

Dunque Olive, la Stone, è una ragazza come tante, che passa metà del suo tempo a parlare di sesso e l’altra metà nella sua stanza a non farlo. Messa alle strette e desiderosa d’impressionare la sua amica più discinta, di cui non può che invidiare le tette enormi, confessa un finto rapporto sessuale, mentre la mostruosa fondamentalista cattolica di turno origlia e provvede poi a trasformare questo pettegolezzo in uno scandalo. Presto, per far trent’uno, dopo aver aiutato un gay tormentato ad apparire agli occhi dei compagni come un perfetto eterosessuale, Olive si guadagna una A+ in prostituzione giovanile.

Nonostante una ragazza come lei avrebbe dovuto intuire che le cose stavano per mettersi male, Olive sceglie con cognizione di giocare al femminismo postmoderno. Usa la sua sessualità senza vergogna, vestendosi da spogliarellista di prima mattina e cucendo una “A” scarlatta su tutti i suoi mini bustini. Ma quando confessa a coloro di cui si fida di essere in realtà ancora vergine, beh, non mostra vergogna neanche in questo. Easy Girl è come un ananas dopo il pranzo alla mensa, fresco, e depurativo. E’ libero da giudizi morali sulle variabili del fare sesso o meno concludendo che non importa con chi si vada a letto basta che ognuno lo tenga per sé. Non si tratta del messaggio più rivoluzionario, certo, ma di uno assente nella maggior parte dei teen-movies, ossessionati dall’incasellare il sesso in un senso o nell’altro.

Puntuale come una campanella fra una lezione e la successiva, su alcuni passaggi la trama diventa troppo tentacolare: le avventure del professore di lettere con moglie fedifraga e di un pluri-ripetente di 22 anni sembrano prese in prestito da un film peggiore, meno sicuro di sé. Molto bizzarra anche la parte di Amanda Bynes, ex regina di questo genere di pellicole, che pare trapiantata da uno dei suoi vecchi film senza essersi messa nel frattempo al passo con i tempi. La Bynes interpreta Marianne, una replicante figlia del cattolicesimo, la quale, anche considerando gli standard di grande caratterizzazione dei personaggi che piagano questo tipo di film, non è niente più che un bullo di una sola dimensione che rifiuta di seguire il corso “religioni delle altre culture” bollandolo come fantascienza. Mandy Moore in Saved dopo che qualcuno l’ha scordata nella varechina.

Questo esperimento della neo wave hughesiana non possiede la scintilla di Una pazza giornata di vacanza o la frizzantezza di Mean Girls, ma fornisce una puntuale, intelligente istantanea della natura della reputazione nell’era della socializzazione online, quando qualsiasi cosa che sia inviata per sms o pubblicata su facebook è automaticamente vera, anche senza lo straccio di una prova. La stessa protagonista ricorrerà a YouTube per fornire la sua versione dei fatti. Finché non accende una telecamera, se la punta addosso e trasmette dalla sua stanzetta, infatti, nessuno la sta neppure ad ascoltare.

(Cristina Fanti)

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domenica 6 febbraio 2011

Il Truffacuori - L'arnacoeur

C’era una volta il regno fatato della commedia romantica, fra le colline di Hollywood negli Stati Uniti. Poi un soffio di vento ha trasportato il seme della levità attraverso il mondo, in alcuni luoghi ha attecchito e prosperato, in altri no. E così anche i francesi hanno cominciato a saper impacchettare piccole graziose storie d’amore. Agli italiani invece è toccato Moccia.

Lo spunto di questo racconto è pretestuoso e stralunato, Alex Lippi, presentato a inizio film come uno 007 durante una sfilata in aeroporto, a ralenti e con sottofondo rock, è un sabotatore di coppie, un lavoro, come vediamo subito, molto credibile. Si occupa, con l’arma della seduzione, nonostante la mascella prepotente, di sfasciare relazioni amorose, ma soltanto nel caso in cui la donna sia infelice; nobile proposito, anche questo assolutamente credibile.

Infiltra la coppia con una mascherata coadiuvato da una squadra di collaboratori, sorella e cognato, propina la facciata di uomo sensibile, sparge qualche lacrima qua e la e apre gli occhi alle fanciulle su ciò che manca al loro uomo. Lo schema è sempre lo stesso e funziona, da dieci anni. Tutto fila liscio insomma, fin quando non gli viene presentata una missione impossibile: chiudere lo spazio fra gli incisivi di Vanessa Paradis. No, questa sarebbe fantascienza. Ha dieci giorni di tempo per mandare a monte il suo matrimonio perché il suo ricchissimo promesso sposo la sta facendo diventare estremamente facoltosa, e questo si sa renderebbe infelice ogni donna.

Il tono è naturalmente spensierato, pervaso di una vena comica piuttosto efficace e che regge bene il ritmo per tutti i 105 minuti, con picchi di vera ilarità della quale si resta stupiti se come me ci si approccia ai film francesi con sospetto, chapeau. I personaggi sono classici tipi da commedia, il bello, il brutto, il cattivo, il cattivissimo, la sagace e l’astronomica figa con la puzza sotto il naso, per lo più stereotipati e funzionali alle varie gag, ma pur sempre piacevoli. Gli episodi sono sopra le righe, rocambolesche comiche fisiche o piccoli giochi d’ironia. L’immagine di Romain Duris che pratica il carling per arrivare a conquistare una donna stabilisce il carattere del film fin dal primo minuto. Per non parlare dei suoi impacciati tentativi d’imparare la famosa coreografia di Dirty Dancing. Semplice e innocente comicità giocata sulle goffaggini di un personaggio altresì perfetto. Magari un tantino già vista, ma sicuramente ben lavorata. Le luci sono articolate, le immagini soffuse e dal gusto retrò, i colori studiati, la regia intelligente e veloce con brillanti scatti della macchina da presa e un divertente uso della quarta parete, gli abiti da favola.

Vanessa Paradis pare interpretare se stessa, quasi ci si scorda che il personaggio abbia un altro nome. Algida e imbronciata, tipicamente d’oltralpe, infonde però alla sua Juliette una tale grazia che sembra che plani piuttosto che camminare. Con ogni probabilità i tacchi da 14 centimetri che indossa l’hanno aiutata. Dolce e affascinante quando accenna un motivo del più vintage George Michael nascondendo seducentemente il viso per la vergogna. Comincio a entrare nella prospettiva di Johnny Depp.

Il tutto è molto ben amalgamato e seppure la storia d’amore fra i due protagonisti risulti alla fine come sbocciata dal nulla, priva di grosse nuance, in fondo in questo tipo di pellicola è il viaggio, e non il traguardo, che conta.

(Cristina Fanti)

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martedì 11 gennaio 2011

Kill me please

Bianco e nero nella forma, molto nero nei contenuti. Kill me please è una farsa scura e politicamente scorretta che prende le mosse in una clinica per la “buona morte” in cui si aiutano i pazienti a dipartire da questo nostro mondo infame. Ha i suoi momenti, ma soffre di un certo avaro desiderio di essere irritabile, compassionevole e provocatorio presupponendo di continuare a far sbellicare ininterrottamente dalle risate. Una certa freschezza e originalità ci sono, nel suo modo sardonico di trattare un taboo, e questo aiuta a reggere il pubblico tra gli infiniti cambiamenti di tono e cul de sac drammatici. Purtroppo a conti fatti è un film frustrante, mai così intenso, dissacrante o semplicemente divertente come vorrebbe essere.

I picchi di comicità sono soprattutto negli scambi verbali e nei guizzi fisici dei protagonisti, piuttosto che in scene realmente studiate per far ridere nella loro complessità. Qualche coup de theatre ben piazzato aiuta a ritirare su l’attenzione dopo alcuni piccoli cali di voltaggio.

Lo stile di ripresa vagamente documentario, camera a mano e fotografia austera, resta tutto sommato inspiegato. La macchina da presa è invadente ma non si rivela mai come giocatore attivo; sembra che i personaggi da un momento all’altro si rivolgano alla troupe ma in realtà non lo fanno mai, lasciandoci così timidamente in bilico fra soggettività grottesche e fissità impersonali.

Confidando su questo formato semi documentaristico Barco non ha la necessità di puntellare troppo la storia, e così il gran finale arriva sospinto da fragili ali drammatiche. Similmente, nonostante degli sprazzi in cui gli incastri funzionano, alla pellicola nel suo complesso sembra mancare coerenza. A dispetto della dichiarata indole farsesca e laconica la vicenda pare faticosamente cercare un messaggio complesso, senza però che si capisca quale. Forse che anche le strategie di fuga (dalla vita, in questo caso) più meticolosamente programmate hanno la strana abitudine di andare a finire nel verso sbagliato? Il semplice fatto che ce lo chiediamo fa meditare sulla riuscita dell’opera, che pure non ha scoraggiato la giuria del Festival del cinema di Roma dal conferirgli il premio più ambito.

Il perno della vicenda, il direttore della clinica, dott. Kruger, sembra minaccioso e sfuggente quando ci viene presentato, facendoci sperare che loschi affari emergeranno per il nostro sollazzo dai lettini della struttura. Man mano che la storia procede però queste sue qualità sono impastate in maniera sempre meno saporita, fino a volerci far credere che il motivo per cui si sia dato tanta pena nel mettere in piedi una tale struttura, con tanto di faida con il vicino villaggio con il quale intrattiene sparatorie alla Robocop, sia semplicemente perché convinto sostenitore del diritto umano di scegliere il modo, il tempo e il luogo di morire e niente più. Terribilmente blando, le nostre papille gustative battono in ritirata, sconfitte. Un personaggio sprecato.

Nel caso dei suoi pazienti invece accade il contrario; tutti sono soffritti lentamente e aggiungendo via via manciate di pepe. Cercare di scoprire fin quanto ognuno di essi sia effettivamente fuori di testa sembra il vero scopo della visione del film. Forse non quello per cui siamo venuti, ma pur sempre gustoso.

(Cristina Fanti)

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venerdì 3 dicembre 2010

We Want Sex - Made in Dagenham

Atmosfere da Billy Elliot per questa commedia che cosparge di zucchero a velo e confettini colorati un evento storico di portata internazionale, condensando una storia di rivendicazioni sociali in una girandola di situazioni e personaggi che però mancano del mordente necessario per essere considerati speciali.
L’industria cinematografica inglese conferma ancora una volta di amare i film in costume nostalgici e accattivanti, e incarta insieme commedia e dramma con un bel fiocchetto dalle nuance anni 60.

Questa è Dagenham, anno domini 1968. Nella fabbrica della Ford un gruppo di 187 donne cuce rivestimenti per sedili di automobili in uno scantinato al cui interno l’acqua piovana gocciola dal soffitto e per il caldo si lavora in reggiseno, ciarlando come dal parrucchiere e mettendo in imbarazzo qualsiasi collega di sesso maschile irrompa in tale regno. Quando per loro si prefigura un abbassamento del salario, sostenute da un affettuoso sindacalista (Bob Hoskins), questo drappello di cotonate elegge la timida e pacata mamma di famiglia Rita (Sally Hawkins) come propria rappresentante al tavolo delle contrattazioni. Inaspettatamente la piccola donna stravolge le carte in tavola e con un impeto di risolutezza chiede che il salario femminile venga portato al livello di quello degli uomini, dichiarando sé e colleghe ufficialmente in sciopero. La sua determinazione contro lo scetticismo dei loro datori di lavoro, colleghi e persino mariti le aiuterà a lasciare un marchio nella storia d’Inghilterra e aprirà la strada alla legge sull’uguaglianza del trattamento economico due anni dopo.

Il film è un insieme d’illuminazione pittoresca e graziose performance che accecano e nascondono qualsiasi forma di reali ambiguità, conflitto e complicazioni. La scelta non è scavare nel contesto, e questo è chiaro fin dalle prime inquadrature, ma non si può pretendere di mostrare credibilmente la storia se con essa si gioca distratti e veloci. Spariscono per non offendere nessuno ogni amarezza e senso di oppressione generalmente associati alle lotte industriali, e così ci si trincera dietro l’assoluta condivisibilità della tematica centrale; chi se la sentirebbe di essere in disaccordo con il desiderio di uguaglianza? Il consenso facilmente si forma sull’idea che combattere il maschilismo sia un’istanza apolitica.

Mantenendo il tono volutamente poco complicato e solare, e facendo in modo che tutti gli antagonisti abbiano modo di redimersi, ogni sentimento rivoluzionario e potenziale drammatico sono succhiati via, ottenendo così la rappresentazione più leggera che si possa immaginare sul tema del rischiare tutto per una giusta causa.

Sally Hawkins è spinta oltre il limite della naturalezza quando a ogni frase trema d’indignazione con gli occhi gonfi di disprezzo. Del suo talento è fatto molto buon uso invece nelle scene in cui interagisce con il marito.
Questa tendenza all’esasperazione si ripete anche nella sceneggiatura stessa, che sottolinea molto marcatamente temi e chiavi di svolta.
Ogni personaggio ha i suoi quindici minuti di gloria e così tutti sono contenti di questo prodotto: gli attori, perché hanno modo di lavorare e mettersi in mostra; il regista, perché un attore soddisfatto vuol dire il 70% di problemi in meno; e il pubblico, perché è appagato da uno sfarfallio di colori primari. Eccetto che il pubblico non è contento affatto.
Il film è sicuramente piacevole agli occhi ma resta superficiale. Puntando tutto sul divertimento piuttosto che sui saldi ideali seppur presenti nella storia, e così attuali, è reo di populismo e alla ricerca di un facile successo, ma tutto ciò che riuscirà a ispirarvi è solo una flebile risata.

Alcuni punti semi-femministi sono lanciati qua e la ma tuttosommato questa vuole essere ed è un’avventura calda e idealista che sconfigge la dura regola delle difficili battaglie, spesso perse, dei lavoratori.
Alla Festa del Cinema in sala con noi erano presenti alcune delle vere protagoniste della rimostranza. Chissà cosa avranno pensato rispetto a questo gesto che ha definito la loro vita, una generazione, e un po’ il mondo intero, e che ora passa davanti ai loro occhi come una sfilata di capi d’abbigliamento vintage durante la quale poco è mancato che tutto il cast cominciasse a sculettare sulle note di “Hot Chocolate” a la Full Monty.

(Cristina Fanti)

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lunedì 15 novembre 2010

Dalla vita in poi

Di solito diffido del cinema italiano, e ne sono contenta. Perché quando mi capitano sott’occhio quelle rare gemme, rare è la parola chiave, sono sinceramente sorpresa e rincuorata.

Dalla vita in poi è un film troppo poco socialmente impegnato, troppo poco lento, troppo squisitamente romantico, troppo ben diretto, anche, per essere italiano. Eppure lo è, genuinamente italiano. La storia è vera, il regista ha incontrato la protagonista, amante di Manfredi che braccava i set in cui anni fa lavoravano insieme, e ci è diventato amico.

Lei, Katia (Cristiana Capotondi) è affetta da sclerosi multipla, nel corpo, non nell’animo. Intrattiene un rapporto epistolare con un detenuto, 30 anni per omicidio, Danilo (Filippo Nigro) e si innamora di lui. Semplicemente, candidamente, e con la forza di un’eroina di Jane Austen.

La Capotondi dice di essersi affezionata al progetto perché conteneva qualcosa di epico seppure all’interno di una marcata contemporaneità. Ha ragione. La malattia e la detenzione sono forze sovraumane che ostacolano l’amore di queste due persone che nonostante tutto continuano a crederci, con caparbietà ed ironia. Una passione assai vintage, per così dire, in una realtà molto poco passionale.

Malattia e detenzione, in fondo questa pellicola qualcosa di sociale ce l’ha; si, ma con leggerezza. Il regista sottolinea che non sta raccontando un fatto di cronaca e non vuole fare denuncia, bensì dipingere dei personaggi. Ci riesce benissimo. Complice una sceneggiatura praticamente perfetta, equilibrata tra amarezza e dolci baci, carica di ritmo come un cuore che ama, mai sdolcinata come chi lavora in prigione. Danzando fra presente e passato (prossimo) disegna piccole scene che funzionano da sole. La musica e un buon montaggio le condiscono di una piccante adrenalina. E soprattutto incanta quell’ironia che fa risplendere la protagonista come un sole di Dicembre, lucente ma fresco. Sagaci i riferimenti alla realtà quotidiana, come la proclamata volontà di chiamare Striscia la Notizia, o l’intera rosa dell’AS Roma, anche questa un po’ vintage, che si allena a Trigoria.

La regia sceglie di non far vedere molto la sedia a rotelle su cui Katia è costretta, gioca su primi piani interessanti e non ha paura di scoprire, seppur senza sottolineare, la profondità dei suoi personaggi.

Gli attori sono per lo più spontanei, la romanità li aiuta, e tutto sommato si lasciano apprezzare. E’ una buona idea tenere Filippo Nigro in mutande per metà film. Solo Pino Insegno nella parte del sovraintendente di polizia mi ha lasciato perplessa. Al di là che un agente che parla romano in dizione non l’ho mai sentito, forse ci ha troppo abituati a vederlo nei panni di se stesso, e in divisa mi sembra quasi che ci stia prendendo in giro.

Decisamente un film da provare per chi spera ancora che il cinema italiano risorga dalle sue ceneri.
Delicato, come una scritta su uno specchio appannato.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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sabato 18 settembre 2010

Mordimi - Vampires Suck

Mi trovo in difficoltà. Scrivere una recensione di Mordimi è un po’ come esprimere un parere gastronomico sull’enterogermina. Non sa di niente.

Il film dovrebbe essere una parodia sul genere dei vari Scary Movie, Epic Movie, Hot Movie, Disaster Movie e tutti quei "Qualcosa Movie" che vi vengono in mente. Infatti, per coincidenza, è scritto e diretto dagli stessi geniacci. Alla loro migliore prova per quanto mi riguarda, non perché il risultato sia buono, ma perché perlomeno è solo incredibilmente noioso invece che insopportabilmente irritante. Questa volta, per portare una ventata di freschezza, centrano il loro mirino su una saga in particolare, invece che su una categoria narrativa in senso lato.

E così rubano la trama di Twilight e producono una copia più economica e più insulsa dei tre film della saga centrifugati in 82 minuti. Possiamo anche dirlo, già i film originali non erano un granché. Non c’era veramente nessun bisogno di farne un sunto. Stephanie Mayer dovrebbe probabilmente fare causa.

E’ imbarazzante vedere una commedia languire nel silenzio per un’ora e mezza, con battute lanciate in una platea che è un vuoto cosmico. In fondo mi dispiace che Twilight non sia riuscito ad ottenere una parodia migliore. Molte delle frecciate del film consistono nel menzionare una serie di reality show, quando non sono completamente devote a sottolineare la loro rilevanza rispetto all’universo a cui si ispirano, come se gli “autori” non capissero che per il pubblico questo concetto sia già assodato. Ad eccezione forse di chi è andato in bagno ed è poi rientrato per errore nella sala sbagliata. Un continuo rimarcare e spiegare, rompendo la quarta parete. Esempio: Jacob perché sei sempre senza maglietta? – E’ scritto nel contratto – Jacob mostra il contratto, sguardo in macchina. Inesorabile gelo.

Ho contato tre risate. Quando nella caffetteria accanto ai Sullen (i nostri Cullen) appaiono i tipi di Jersey Shore tutti oliati e in posa. Quando Becca (si, i giochi sui nomi sono la parte peggiore) dice di aver capito cosa sia Edward in realtà, ben vestito, bianco cadaverico e sessualmente astinente, è un Jonas brother. Quando Edward dice a Becca che anche solo l’odore del suo fiato è il Paradiso e lei gli pianta una flautolenza in faccia fancendolo volare giù dalla finestra, come il miglior Fantozzi. Preso il pubblico per sfinimento alla fine sulla puzzetta si rilassa e si fa due ghigni.

Devo ammettere che le scenografie e i costumi sono calzanti e Jenn Proske fa un’ottima imitazione di Kristen Stewart che parla guardando per terra, sbatte le ciglia e si morde le labbra. Se solo le avessero dato qualcosa di divertente con cui destreggiarsi.

L’impressione generale è che i timonieri di questa iniziativa fossero troppo sfaticati per qualsiasi cosa che non fosse una copia scena per scena dell’originale, quando focalizzandosi di più su un’effettiva satira dell’universo di Twilight avrebbero ottenuto, con un po’ di sagacia, forse, qualcosa di davvero divertente.

Credo abbiano cercato di prendere in giro Twilight senza far arrabbiare i fan e con questo intendo che hanno semplicemente mostrato loro, di nuovo, i film che avevano già gradito.

(Cristina Fanti)

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Butterfly Zone

La premessa di questo film è a tratti interessante.
Un’astronave emana un raggio luminoso sottolineato dall’audio di una lingua aliena. Nei sottotitoli a corredo si legge che l’ET in questione ha commesso un grossolano errore e viene sgridato da quello che è presumibilmente il suo capo. Ci sembra di assistere ad un battibecco tipico di quei mostriciattoli verdi delle puntate di Halloween dei Simpson, alieni guasconi e casinari all’Americana.
Si ha questa idea dall’incipit della storia: uno sci-fi movie dalle tinte ironiche. Un tentativo di traduzione all’amatriciana di film come Independence day o Mars attacks. I miei occhi sbrilluccicano e l’attenzione si desta. Magari fosse così. Naturalmente, ne ho la conferma poco dopo, c’è un motivo se i film di fantascienza si fanno negli Stati Uniti e non in Italia.

L’assunto è folle. Il raggio alieno della prima scena che ha colpito la vigna di Francesco Salvi ha trasformato i suoi chicchi d’uva in passaporti per l’aldilà e così un sorso del vino che ne deriva permette di viaggiare a cavallo delle coscienze, in una dimensione ultraterrena che però mi sembra non abbia molto da dire. Il tutto si trasforma in thriller quando accidentalmente, attraverso questo ponte interdimensionale aperto dal vino, torna sulla terra un sadico assassino guidato da un qualche istinto mistico a la Codice da Vinci, che però sfortunatamente non fa paura a nessuno ed è credibile quanto il Puffo Burlone.

Il regista stesso, per darsi un tono cinefilo, dice di amare la commistione e di aver infatti su di essa puntato tutto. Forse però non ha controllato che sul dizionario alla voce “commistione” non c’è scritto: accozzaglia informe di elementi di genere. Comicità da bar dello sport, presenze surreali - come una banda musicale immobile in un campo di grano (per nessun motivo apparente), citazioni a caso tanto per gradire - come Barbara Bouchet vestita da Salvador Dalì, e via discorrendo.

Nel sottobosco della trama un vecchio uomo d’affari cerca di appropriarsi del vino in questione per poter così controllare le nascite e le morti. E’ un concetto che non ho avuto neppure voglia di analizzare, ma nella sua rappresentazione, nella sua recitazione forzata, mi ha ricordato il piano malefico di un nemico molto poco riuscito della serie televisiva Streghe.

Gli attori sono spesso innaturali, anche se il regista ostenta un gioco alla libertà di espressione che avrebbe dovuto facilitare gli interpreti nel raggiungimento della naturalezza espressiva. Alessandra Rambaldi ne esce particolarmente sconfitta.

La stessa scelta dei nomi dei protagonisti la dice lunga sulla predisposizione dello sceneggiatore/regista/curatore della colonna sonora, fin troppo strambi e ricercati, come se ci volesse far ridere ad ogni costo, come se in ogni minimo particolare sentisse la necessità di sottolineare la sua peculiarità artistica e il suo coraggio nell’aver realizzato un film così “colorato” – traduci: “pretenzioso”.

All’uscita dalla proiezione ci regalano una bottiglia di vino, forse per aiutarci a dimenticare.

(Cristina Fanti)

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Una notte blu cobalto

La prima sensazione che questo film mi ha trasmesso è stata una pacata, apatica angoscia. Non so se fosse per la spocchia da adolescente forzatamente anticonformista di Regina Orioli, fissa, immobile nella sua rara antipatia, o quella sciarpetta da intellettuale fallito perennemente avvolta al collo di Corrado Fortuna. Una delle due cose comunque, probabilmente volute, mi ha sussurrato appena entrata in sala che questi personaggi fossero imprigionati in una dimensione di vuoto cosmico.

Lui, Dino, è stato lasciato da lei, Valeria, e non se ne riesce a fare una ragione. Per questo gironzola per Catania senza uno scopo nel cuore della notte finché un magico impulso non lo spinge a proporsi come garzone per una pizzeria, la Blu Cobalto. In questo luogo un po’ fuori dal mondo il proprietario, che sembra più che altro un sofisticato addestratore di marines che cita Sunzi a spron battuto, gli imporrà una serie di strambe consegne.
Fra un’inquadratura di un monumento e l’altra, i clienti in cui si imbatterà il nostro protagonista insieme alla sua inseparabile pashmina tolgono l’aria a chi guarda. Solitudine, pazzia, morte, vecchiaia, infanzia abbandonata, questo il terreno minato degli aficionados della pizza blu cobalto. Nelle loro brevi apparizioni non lasciano nulla allo spettatore (a parte, di nuovo, una lieve angoscia), sono entità quasi fantasmatiche, a dire il vero un po’ troppo fini a se stessi, macchiette, per così dire.

Che si tratti di una specie di onirico viaggio di formazione si capisce alla seconda consegna, davvero troppo surreale per suggerire qualsiasi altra ipotesi, e alla quarta, quinta e sesta nulla viene aggiunto. La storia semplicemente continua a ripetersi. Fino al finale risolutivo, che chiama in causa polveri magiche, scatole luminose e lucciole danzanti.
Una sorta di sapore fantasy che però non riesce a rendere gustosa la trama, che giace tutto sommato senza senso. Scontato il messaggio di redenzione per cui Fortuna e la sciarpetta radical chic superano quel senso d’inadeguatezza lasciato loro dal broncio con cui la Orioli si veste dal 1997.

Davvero le nostre nuove leve cinematografiche vogliono accontentarsi di questa pochezza a livello di contenuto? Ciò stupisce soprattutto perché al contrario il film merita molto a livello formale, ricco di inquadrature interessanti, piani sequenza elaborati che integrano diversi piani temporali, la tecnica è padroneggiata molto bene, perfino in un’improbabile scena d’amore seguita con molto gusto e gentilezza.
Gangemi è alla sua opera prima ed è riuscito a far produrre e distribuire un film realizzato con 500.000 euro senza aiuti statali. Per di più non si tratta di una storia di polizia, carabinieri, mafia o immigrazione nel più classico stile italiano. Per questo, anche se dalla sceneggiatura si poteva spremere di più, il film merita di essere supportato.

(Cristina Fanti)

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venerdì 17 settembre 2010

Un canzone per te

Lasciatemi confessare che sono un’appassionata di commedie americane, e negli anni ho masticato abbastanza film liceali da avere il palato fine.

Alla conferenza stampa di Una canzone per te si mettono subito le mani avanti: “è una commistione di generi” dice il regista, alla sua opera prima. Un eufemismo, che tradotto ci dice che ci troviamo davanti ad una grande accozzaglia.
Si fanno nomi importanti: John Hughes (il genio che negli anni 80 ha reinventato il teen movie), Ritorno al futuro, Slining doors. Come riferimento musicale gli Zero Assoluto (presenti in conferenza perché autori di una delle canzoni della pellicola) nominano Juno. Che coraggio.

Questa la trama: un ragazzo scapestrato ma molto “figo”, fidanzato con la più bella della scuola, rischia di perdere l’anno scolastico perché dedica più tempo alla musica che allo studio. Il giorno del compito d’italiano una serie di cose gli vanno storte, tanto da lasciarlo senza band e senza dolce metà. Grazie ad una specie di guru telematico avrà una seconda chance di rivivere quella brutta giornata e possibilmente farla andare meglio, o peggio… Il tutto lo porterà a scoprire nuove amicizie e profondità del suo stesso animo.

Ho parlato di accozzaglia perché il sapore fantastico con cui si comincia viene ben presto accantonato e totalmente dimenticato. Eppure era proprio questa la parte più innovativa della pellicola, che apriva il genere adolescenziale italiano a nuovi stilemi mai tentati prima. Il tutto scivola invece verso il più classico topos dell’amore al tempo degli esami di maturità, che avendo un predecessore di alto rango come Notte prima degli esami affronta uno scontro impari.

Si è detto che si voleva arrivare ad un prodotto che miscelasse il meglio della tradizione americana ed italiana. Ecco, il secchione di turno, Guglielmo Scilla (popolare Youtuber che è stato scelto proprio grazie alla sua notorietà mediatica, cosa già di per se molto a stelle e strisce), è un personaggio che sembra arrivare dritto da Los Angeles, con le sue gag, smorfie e magliettine improponibili. Tra l’altro somiglia a Jack Black. D’altra parte il padre del protagonista, Sergio Albelli, è il prototipo del romano che tanti comici negli anni hanno contribuito a realizzare. E funzionano, entrambi.

Purtroppo nel mezzo c’è tanta mediocrità. Michela Quattrociocche è la ragazza perfetta, una sorta di Cher di Clueless dopo una lobotomia. Andrea Montovoli è il rocker borchiato che fa tremare tutti, mi ricorda il Patrick Verona di 10 cose che odio di te, solo che in quel caso si trattava di Heath Ledger, e Heath Ledger ha vinto un Oscar. Martina Pinto fa la sgualdrina, la pallida ombra della Nadia di American pie. E Carolina Benvenga la maledetta invidiosa, quella Lana di Pretty princess.

Forse ho perso il contatto con quello che è l’universo liceale di questi tempi, fatto sta che c’è qualcosa che non mi torna. La storia fresca e gli occhi azzurri di un bel giovine nonostante i tempi che cambiano sicuramente avranno ancora la forza di catturare i cuori delle quattordicenni, ma una domanda mi attanaglia: come può il direttore artistico di Mtv in persona, che ha curato la parte musicale, pensare di accattivare i ragazzi parlando loro degli eroi del rock classico e poi pretendere di emozionarli con i Sonohra??

Purtroppo finché in America continueranno a fare film come Mean girls non ce ne sarà per nessuno.

(Cristina Fanti)

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La valigia sul letto

Eduardo Tartaglia alla conferenza stampa di presentazione del film parla di napoletanità esportabile. Questo concetto pare sia legato al mantenere al minimo le espressioni dialettali e offrire al pasto del milanese-tipo una spruzzata di luoghi comuni qua e là.

E infatti c'è il boss mafioso, con i baffi neri neri e la pelle dorata, c'è il protagonista dalle gote rosse a cui, si vede al primo sguardo, piace tanto mangiare la pizza e i babà, e la giunonica partenopea che, per citare Biagio Izzo in una scena del film, possiede prua e poppa di alto rango.

Achille e Brigida sono una coppia di fatto che si barcamena in una vita di stenti. Impiegato lui, più estroversa lei, garzona di una macelleria per cui fa consegne vestita da polpetta gigante. Quando viene licenziato Achille tenta il tutto per tutto con un lavoro di ripiego, in nero, come guardiano notturno dei cantieri della metropolitana (come dire più in basso di così c'è solo da scavare), all'interno dei quali i due finiranno anche per vivere a seguito di uno sfratto.
Ma ecco che con un'improvvisa sterzata della sorte il nostro protagonista si scopre imparentato con un temutissimo boss mafioso neo pentito, e per questo è costretto a fuggire con i suoi cari (ed il boss in questione) come previsto dal programma di protezione della polizia, lasciandosi dietro cantieri e miseria per una terra promessa che spera dia loro l'opportunità di ricominciare.

Naturalmente non avranno vita facile in quanto il boss di Biagio Izzo, Antimo Lo Ciummo, venticinque anni di latitanza e per questo detto “l'Antimo fuggente” (la sala a cuor leggero ridacchia, immagino lo farà anche il milanese-tipo), ha alle costole un'efferata assassina, Alena Seredova. A farle da controparte un Maurizio Casagrande commissario di polizia che gioca molto su una professionalità dalle tinte grottesche.

Ho apprezzato in alcuni passaggi il tentativo di creare un'atmosfera action-thriller dai sapori internazionali. Inquadratura dall'alto, ralenty e suspance musicale; una morona da schianto estrae due pistole a canna lunga che sembrano prese in prestito da Angelina Jolie e si lancia in una smitragliata d'autore che Rambo sarebbe onorato. Certo è che la morona indossa il costume da polpetta gigante e allora mi ricordo che siamo a Napoli e sorrido.

Questo film ha certamente i suoi momenti, la napoletanità di cui si parlava è molto vera e piacevole. Tartaglia, Mazza e Izzo sono ottimi, Casagrande buono, Seredova rimandata.

(Cristina Fanti)

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Promettilo! - Zavet

Già prima che finiscano i titoli di testa Kusturica stordisce lo spettatore. Lo schermo prende vita con cerchi concentrici bianchi su una ruota nera che gira vorticosamente, come quando alle elementari cercavamo di dare fastidio ai nostri vicini di banco.
E su queste note prosegue la pellicola, un'aggressiva commedia iperattiva, in un crescendo di trucchi, elementi fiabeschi, invenzioni strampalate e atmosfere da slapstick anni 30. Ho quasi l'impressione di assistere ad una proiezione simultanea dei Goonies, Tutti insieme appassionatamente e una versione a basso costo di Big fish.

Ci troviamo in Serbia, in un minuscolo paese di collina che conta appena tre abitanti. Tsane, un dolce dodicenne; suo nonno, un anziano rubicondo e scapestrato inventore di binocoli per spiare il vicinato che escono dalla cappa del camino; e Bosa, la provocante professoressa di Tsane, suo unico alunno, e spasimante del nonno.
Quando questi si sente vicino alla fine dei suoi giorni chiede al nipote di fargli una promessa, quella di andare in città, vendere la mucca di sua proprietà, comprare con il ricavato un'icona di San Nicola e trovare una bella moglie.
Il ragazzo così parte, ma non prima di aver dato una sbirciatina al prosperoso seno balzellante di Bosa attraverso il telescopio del nonno. In città lo attendono gangster sgangherati che hanno in programma di costruire una copia del World Trade Centre, due fratelli pelati e coordinati nelle vesti (camice a scacchi, pantaloncini da giovani marmotte e stivali da cowboy), e Jasna, una splendida studentessa del liceo che rapisce il cuore del nostro protagonista con lo sprint di una veloce pedalata.

Ciò che colpisce è la tendenza barocca che percorre la pellicola, in un succedersi di musiche e colori, sempre più forti e sempre più brillanti che danno vita ad una catena di cacofonie senza fine. E poi ci sono un paio di domande. La schizofrenia del pezzo, così diviso fra l'atmosfera cartoonesca fatta di colpi d'occhio e gags e una violenza e sessualità fortemente esplicite, è voluta o accidentale? Qual è il motivo (pensiero che mi dà i brividi) per cui un dodicenne dovrebbe andare a cercare una sposa liceale per poi consumare il loro amore prima del matrimonio dentro il cofano di una macchina che sfreccia sotto i colpi di proiettili e missili?
A meno che non sia io ad essere poco accorta o molto stupida e mi sto perdendo un brillante significato nascosto, mi sembra che Promettilo! voglia essere divertente e rumoroso ad ogni costo, esagerando in situazioni e modalità alla ricerca disperata di azione, qualsiasi azione, anche se fatta di tempi assurdi o ridicola. Risa amare.

(Cristina Fanti)

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