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giovedì 14 aprile 2011

Scream 4

È difficile parlare di Scream 4 senza raccontarlo, perché alcune delle trovate più geniali sono appunto nelle pieghe inaspettate che prende la trama. Ma ci proviamo, partendo dalle certezze.

La prima: una catena di Sant’Antonio di rimandi cinefili, dai più agguerriti agli scontati (le bombe a mano lanciate su Saw IV, oggigiorno il maggiore concorrente della saga degli urli).
La seconda: il sangue, qualche ettolitro, sparso in ogni dove e senza mai più di cinque minuti d’intervallo. Un cast pesante e di grandi nomi per questo capitolo, pochi dei quali dovranno prevedere di tenersi liberi nel fortuito caso di uno Scream 5, solo per darvi un’idea.
La terza: l’(auto)ironia. Il film continua a prendere sagacemente in giro decenni di pellicole horror ma si ripiega anche su se stesso, con l’irriverente, reiterata insistenza sulle pecche della serie Squartati (iniziata in Scream 2 ma qui arrivata all’inverosimile settimo sequel), l’alter ego del franchise.
La quarta: la metacomunicazione. Fino allo stremo, fino anche alla risata un tantino forzata, un gioco di matrioske cinematografiche a cui non viene data mai pace.
La quinta: la tecnologia. E’ una nuova decade, cita il poster americano, e il film si diverte a toccare tutti quei tasti che non esistevano al momento della sua prima apparizione nella storia. La rovina dei valori della gioventù legata alla sete di fama, la vulnerabilità di un’umanità che vive in pubblico sui social network. E’ facile capire perché si senta il bisogno di confrontarcisi ma purtroppo sono tutte tematiche scadute cinque minuti prima.

Insomma, Sidney torna a Woodsboro dopo dieci anni di assenza per presentare il suo libro motivazionale su come sia possibile superare la condizione di vittima. La sua agente, che verrà giustamente punita dalla sorte, le organizza questo fortunato incontro pubblicitario proprio nel giorno dell’anniversario dei famosi delitti che le hanno cambiato la vita. C’è chi non impara mai. Con Sidney di nuovo in città l’aria diventa densa e Ghostface torna a colpire. Linus e Gale nel frattempo si sono sposati, il primo è lo sceriffo della città, la seconda una casalinga disperata, autrice delle sette sceneggiature di Squartati, ispirate alle “vere” vicende del primo Scream, ed ora in cerca di un reboot di gloria. Poi ci sono i giovani 2.0, ma solo i nati dopo il 1990 andranno a vedere Scream 4 per loro. La cugina di Sidney, le sue amiche, l’ex fidanzato e i nerd del club di cinema che servono a veicolare la prima e la quarta certezza.

Il modo in cui Williamson (lo sceneggiatore) riesce ancora a prendersi gioco degli stilemi del genere horror, per quanto forse è vero, è la terza volta che glielo vediamo fare, ha sempre un non so che di brillante. Il gioco alla destrutturazione delle regole danza su un filo teso fra la norma e il suo contrario, lasciando lo spettatore sempre un po’ indeciso se debba aspettarsi un colpo di scena di genere, o uno vero, innovativo. E ce ne sono di entrambi.
L’arte di Craven (il regista) e del suo pennello di sangue non è mutata. Per intenderci la violenza è vera, e non ridicolizzata alla Scary Movie, ma non ci troviamo neppure davanti al classico modello torturale che tanto piace alle folle di questi tempi. E’ poco sadica, molto più vintage che nuovo millennio.

E’ dunque chiaro che questo film non è pane per i denti di tutti. Andrà bene per i fan della serie, per i cinefili incalliti, per chi vuole tornare a respirare un po’ d’aria anni ’90 e per chi a quest’aria ci voglia educare  fratellini o cuginetti.

(Cristina Fanti)

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venerdì 8 aprile 2011

Limitless

Una metafora dei nostri tempi. “E se una pillola ti rendesse ricco e potente?” Il sogno americano, la sovranità intellettuale e di mezzi rispetto ai vili consimili. Ecco così che postulata l'ipotesi, il teorema si risolve con un metodo assolutamente contemporaneo.

Uno scrittore che ha accesso all'intero potenziale del suo cervello attraverso l'assunzione di una droga che ne rende le funzioni, appunto, “illimitate”, abbandona i suoi lodevoli sogni di realizzazione artistica, che un tempo lo avevano fatto rinunciare perfino all’amore, e s’immola all’altare del dio denaro. Molto in fretta per giunta, e con che facilità!

Iniziata la scalata al successo grazie al suo (illegale) asso nella manica comincia a scoprire che come sempre per ogni scorciatoia c’è un prezzo da pagare. Stiamo citando l’attore protagonista, Bradley Cooper, che dopo la proiezione ci ha parlato del film. Nella vita, per non correre rischi, non ne prende, ma il suo personaggio invece ci naviga a vele spiegate.

Un’avventura iper-attiva, iper-luminosa, iper-grottesca, iper-panoramica, tratta da un libro che curiosamente non ha lo stesso finale. Sulla carta stampata Eddie Morra, il nostro simpatico e belloccio tossico d’alto bordo, si ritrova solo e squilibrato ad aspettare la morte in una casa buia; nei cinema è invece un vincitore che strizza l’occhio al dubbio sulla sua incerta onestà, ma che ciò nonostante si tiene stretto, e si gode, i suoi allori. Cooper sostiene che tale cambiamento è stato pensato per concludere il film con lo stesso spirito propositivo e leggero con il quale inizia. Ma viene presto in mente che anche una certa abitudine del cinema mainstream a non ammettere nuance e a farsi specchio quasi esclusivamente delle realtà invincibili possa averci messo il suo zampino.

Il che peraltro fa a cazzotti, e in un film così questa metafora ci sta proprio bene, con una regia che è invece abbastanza fuori dagli schemi. Tra giochi d’inquadrature e movimenti di macchina veloci attraverso, oggetti, edifici e mezzi di trasporto, il regista si trastulla con flashback e inserti quasi Eisensteiniani.
Segno particolare un pittoresco quanto elementare espediente volto a identificare le fasi umorali dei personaggi: l’esasperato cambio di luce ogni qual volta questi siano sotto l’effetto della pillola miracolosa, che non è blu ma trasparente, e che vira l’immagine tutta in un’aura dorata, come in un mondo di dei.

A proposito di divinità, Robert De Niro interpreta un magnate della finanza che intreccia la sua strada con quella di Eddie. Poche scene, poco pathos, ma la solita presenza che cattura l’occhio dello spettatore dentro al suo.

A tirare le somme Limitless è un film grasso e fresco come una torta gelato che tratta la corruzione dell’essere umano cospargendola di zucchero a velo. Solo le donne, anche quelle che provano la pillola e ne accarezzano l’ebbrezza, sembrano sottrarsi al suo potere. Che non ne abbiano bisogno? Sarà il caso di rivedere la teoria Darwiniana?

(Cristina Fanti)


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domenica 6 febbraio 2011

Il Truffacuori - L'arnacoeur

C’era una volta il regno fatato della commedia romantica, fra le colline di Hollywood negli Stati Uniti. Poi un soffio di vento ha trasportato il seme della levità attraverso il mondo, in alcuni luoghi ha attecchito e prosperato, in altri no. E così anche i francesi hanno cominciato a saper impacchettare piccole graziose storie d’amore. Agli italiani invece è toccato Moccia.

Lo spunto di questo racconto è pretestuoso e stralunato, Alex Lippi, presentato a inizio film come uno 007 durante una sfilata in aeroporto, a ralenti e con sottofondo rock, è un sabotatore di coppie, un lavoro, come vediamo subito, molto credibile. Si occupa, con l’arma della seduzione, nonostante la mascella prepotente, di sfasciare relazioni amorose, ma soltanto nel caso in cui la donna sia infelice; nobile proposito, anche questo assolutamente credibile.

Infiltra la coppia con una mascherata coadiuvato da una squadra di collaboratori, sorella e cognato, propina la facciata di uomo sensibile, sparge qualche lacrima qua e la e apre gli occhi alle fanciulle su ciò che manca al loro uomo. Lo schema è sempre lo stesso e funziona, da dieci anni. Tutto fila liscio insomma, fin quando non gli viene presentata una missione impossibile: chiudere lo spazio fra gli incisivi di Vanessa Paradis. No, questa sarebbe fantascienza. Ha dieci giorni di tempo per mandare a monte il suo matrimonio perché il suo ricchissimo promesso sposo la sta facendo diventare estremamente facoltosa, e questo si sa renderebbe infelice ogni donna.

Il tono è naturalmente spensierato, pervaso di una vena comica piuttosto efficace e che regge bene il ritmo per tutti i 105 minuti, con picchi di vera ilarità della quale si resta stupiti se come me ci si approccia ai film francesi con sospetto, chapeau. I personaggi sono classici tipi da commedia, il bello, il brutto, il cattivo, il cattivissimo, la sagace e l’astronomica figa con la puzza sotto il naso, per lo più stereotipati e funzionali alle varie gag, ma pur sempre piacevoli. Gli episodi sono sopra le righe, rocambolesche comiche fisiche o piccoli giochi d’ironia. L’immagine di Romain Duris che pratica il carling per arrivare a conquistare una donna stabilisce il carattere del film fin dal primo minuto. Per non parlare dei suoi impacciati tentativi d’imparare la famosa coreografia di Dirty Dancing. Semplice e innocente comicità giocata sulle goffaggini di un personaggio altresì perfetto. Magari un tantino già vista, ma sicuramente ben lavorata. Le luci sono articolate, le immagini soffuse e dal gusto retrò, i colori studiati, la regia intelligente e veloce con brillanti scatti della macchina da presa e un divertente uso della quarta parete, gli abiti da favola.

Vanessa Paradis pare interpretare se stessa, quasi ci si scorda che il personaggio abbia un altro nome. Algida e imbronciata, tipicamente d’oltralpe, infonde però alla sua Juliette una tale grazia che sembra che plani piuttosto che camminare. Con ogni probabilità i tacchi da 14 centimetri che indossa l’hanno aiutata. Dolce e affascinante quando accenna un motivo del più vintage George Michael nascondendo seducentemente il viso per la vergogna. Comincio a entrare nella prospettiva di Johnny Depp.

Il tutto è molto ben amalgamato e seppure la storia d’amore fra i due protagonisti risulti alla fine come sbocciata dal nulla, priva di grosse nuance, in fondo in questo tipo di pellicola è il viaggio, e non il traguardo, che conta.

(Cristina Fanti)

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martedì 16 novembre 2010

Io sono con te

Qualsiasi film che prometta di raccontare Maria di Nazareth senza affrontare temi religiosi scatenerà la mia curiosità. Questo è stato per Io sono con te. Con curiosità appunto mi sono approcciata alla sala e ne sono uscita alla fine della proiezione dopo un quarto d’ora di applausi.

Un regista che viene dal documentario, e si vede. Attori presi dalla strada, anzi fuoristrada, nella campagna Tunisina. Al Festival del Cinema di Roma l’abbiamo visto in dialetto Arabo, immagino che al cinema verrà doppiato. Ormai è classicamente noto come il tocco alla Mel Gibson, ed effettivamente continua a funzionare. Certo è che una produzione americana a volte si lascia impossessare da questi folkloristici lussi idiomatici, una italiana mi permetto di dubitarne.

L’assioma di Guido Chiesa è che un bambino, per quanto parzialmente divino, acquista personalità e strumenti relazionali attraverso i propri modelli genitoriali. E d’altra parte Dio non avrebbe affidato a due umani qualsiasi la cura della sua controparte mortale. Di conseguenza appare chiaro che, in un contesto religioso che identifica nella donna il principio della salvezza, l’uomo straordinario che la Bibbia descrive, a prescindere che ci crediate o meno, debba aver avuto una madre fuori dal comune.

La storia della ragazza che ha cambiato il mondo, cita il sottotitolo, e questo è. Seguiamo Maria dalla concezione alla disputa di Gesù con i dottori nel Tempio. Nel mezzo Erode è alla ricerca della progenie dei cieli, e testa tutti i bambini di Betlemme con quiz di logica e domande a trabocchetto molto poco divine. La nostra protagonista affronta le piccoli grandi sfide dell’essere donna in una società primitiva e maschilista, instaurando un forte equilibrato dialogo con il marito, educando il proprio figlio alla libertà, mettendo in discussione i capi saldi dell’Ebraismo per seguire il suo istinto. Il suo istinto, non un’altra religione. Non soffia un alito di Cristianesimo in questa pellicola, per lo meno per chi non ce lo voglia trovare.

Chiesa è molto crudo nei dettagli che sceglie di mostrare, la regia è asciutta ma efficace. Il tempo scorre senza annoiare e questo ai giorni d’oggi lo considero già un grande traguardo.

Le ricerche condotte sul materiale riportano in parte ai Vangeli e in parte a idee originali frutto d’invenzione; soprattutto per quanto riguarda gli ambienti si opta per un mondo policromatico in contrasto con la tradizione cinematografica del genere. I costumi di Valentina Taviani sono sopra ogni cosa uno splendido regalo per gli occhi. Permeano la nostra visione con un girotondo di colori che evidenzia le personalità dei protagonisti in maniera sottile e mai scontata. Curatissimi nella scelta delle stoffe e più in generale semplicemente belli.

Naturalmente il fascino di un’opera del genere risiede anche nelle riflessioni che genera. Per quanto mi sembra di aver reso abbastanza chiaro che ho molto gradito questo lavoro, sia per la realizzazione che per le idee interessanti, c’è chi non è d’accordo con me. Cito dal sito mirabilissimo100.wordpress.com:

Guido Chiesa non conosce le Sacre Scritture, la storia e la religione del popolo ebraico, quindi il suo racconto non solo è falso ma anche blasfemo e contro la Sacra Famiglia. 
Falsificare i Vangeli è un gravissimo peccato, mentre i vangeli inventati da uomini atei non servono a nulla, anzi portano all’inferno, il Vangelo, la Parola di Dio, la Sacra Bibbia sono la Via, la Verità, la Vita eterna e la Salvezza.
Chi racconta falsità verrà condannato; “Vi assicuro che nel giorno del giudizio tutti dovranno render conto di ogni parola inutile che hanno detto perché saranno le vostre parole che vi porteranno a essere condannati o a essere riconosciuti innocenti”, Vangelo secondo Matteo: 12, 36-37.

Attenderò dunque, insieme a Guido Chiesa e alla troupe del film, il nostro Armageddon.

(Cristina Fanti)

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lunedì 15 novembre 2010

Dalla vita in poi

Di solito diffido del cinema italiano, e ne sono contenta. Perché quando mi capitano sott’occhio quelle rare gemme, rare è la parola chiave, sono sinceramente sorpresa e rincuorata.

Dalla vita in poi è un film troppo poco socialmente impegnato, troppo poco lento, troppo squisitamente romantico, troppo ben diretto, anche, per essere italiano. Eppure lo è, genuinamente italiano. La storia è vera, il regista ha incontrato la protagonista, amante di Manfredi che braccava i set in cui anni fa lavoravano insieme, e ci è diventato amico.

Lei, Katia (Cristiana Capotondi) è affetta da sclerosi multipla, nel corpo, non nell’animo. Intrattiene un rapporto epistolare con un detenuto, 30 anni per omicidio, Danilo (Filippo Nigro) e si innamora di lui. Semplicemente, candidamente, e con la forza di un’eroina di Jane Austen.

La Capotondi dice di essersi affezionata al progetto perché conteneva qualcosa di epico seppure all’interno di una marcata contemporaneità. Ha ragione. La malattia e la detenzione sono forze sovraumane che ostacolano l’amore di queste due persone che nonostante tutto continuano a crederci, con caparbietà ed ironia. Una passione assai vintage, per così dire, in una realtà molto poco passionale.

Malattia e detenzione, in fondo questa pellicola qualcosa di sociale ce l’ha; si, ma con leggerezza. Il regista sottolinea che non sta raccontando un fatto di cronaca e non vuole fare denuncia, bensì dipingere dei personaggi. Ci riesce benissimo. Complice una sceneggiatura praticamente perfetta, equilibrata tra amarezza e dolci baci, carica di ritmo come un cuore che ama, mai sdolcinata come chi lavora in prigione. Danzando fra presente e passato (prossimo) disegna piccole scene che funzionano da sole. La musica e un buon montaggio le condiscono di una piccante adrenalina. E soprattutto incanta quell’ironia che fa risplendere la protagonista come un sole di Dicembre, lucente ma fresco. Sagaci i riferimenti alla realtà quotidiana, come la proclamata volontà di chiamare Striscia la Notizia, o l’intera rosa dell’AS Roma, anche questa un po’ vintage, che si allena a Trigoria.

La regia sceglie di non far vedere molto la sedia a rotelle su cui Katia è costretta, gioca su primi piani interessanti e non ha paura di scoprire, seppur senza sottolineare, la profondità dei suoi personaggi.

Gli attori sono per lo più spontanei, la romanità li aiuta, e tutto sommato si lasciano apprezzare. E’ una buona idea tenere Filippo Nigro in mutande per metà film. Solo Pino Insegno nella parte del sovraintendente di polizia mi ha lasciato perplessa. Al di là che un agente che parla romano in dizione non l’ho mai sentito, forse ci ha troppo abituati a vederlo nei panni di se stesso, e in divisa mi sembra quasi che ci stia prendendo in giro.

Decisamente un film da provare per chi spera ancora che il cinema italiano risorga dalle sue ceneri.
Delicato, come una scritta su uno specchio appannato.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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giovedì 11 novembre 2010

The Social Network

Uso facebook dal 2006 con una convinzione che possiamo definire religiosa. Almeno fino ad oggi. In effetti in questo momento non mi trovo più molto a mio agio tra le sue interfacce. Mark Zuckerberg non esce dipinto al meglio da The Social Network, e con lui è diventato un tantino inquietante tutto ciò che lo circonda.

Un film dal classico stampo americano. Narrazione convenzionale, humor asciutto, belle ragazze e Justin Timberlake.
Ma parliamo di David Fincher, per cui la narrazione è spezzata e poi ricucita da salti temporali che la rendono ritmata ma fluida, e interessante. Lo humour ti colpisce quando meno te lo aspetti senza essere mai ovvio, in agguato ad ogni angolo, soprattutto alle svolte più amare. Le belle ragazze sono cazzute nel New England e puttane in California. Justin Timberlake firma una performance inaspettata.

La storia è nota, è recente, e la sanno tutti, come chi ha vinto l’ultimo campionato. Il ragazzo in preda ad una sbronza, appena lasciato dalla fidanzata, si lancia per ripicca nel mondo che conosce meglio, quello informatico, e crea un sito insignificante e maschilista sul quale si possono votare le foto delle ragazze del suo campus. Questo sito nel giro di pochi giorni diventerà quello che conosciamo, dopo che il suo creatore avrà rubato l’idea di base per allargarne la portata da alcuni ragazzi della sua scuola. Perché diciamocelo, lo ha fatto. Ed è per questo che i ragazzi di cui sopra, i gemelli Winklevoss, hanno vinto la causa che gli hanno intentato per frode. “Se foste i veri creatori di facebook avreste inventato facebook” tuona sarcastico e rilassato Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg) dalla comoda poltrona di uno studio legale. Ed è proprio questo il lato intrigante della vicenda. Che non ce n’è una, ce ne sono tre.

Aaron Sorkin, sceneggiatore straordinario (consegna la sua prima stesura della lunghezza di 165 pagine, eccezionalmente approvata subito per le riprese) e David Fincher hanno riconosciuto l’universalità, sia territoriale che temporale, dei temi da loro trattati, così per differenziarla da un classico dramma, diciamo Shakespeariano hanno puntato tutto sul concetto che la verità non è univoca. Hanno per così dire attinto dalla tavolozza a 256 colori invece che dalla cartella in scala di grigi. “Piuttosto che decidere quale fosse vero e quale no, ho pensato che la cosa migliore fosse drammatizzare tutti i conflitti narrativi” dice Sorkin, “inoltre l’idea di una serie di realtà possibili sembrava molto più in linea con facebook stesso, e cioè con le molteplici possibilità di mostrare un concetto molto personale di verità”. Inseguire la giustizia non è importante per questo progetto, bensì lo è la ricerca del dettaglio, sia attoriale che scenografico, per ricreare gli eventi ed assemblare i fatti come scopo ultimo del film.

La maggior parte delle pellicole biografiche segue uno svolgimento lineare, in questo caso invece parlavamo di storia frammentata. Un lungo flashback che parte dal presente delle due battaglie legali che vedono Mark come protagonista. Un uno contro tutti in cui la parola di ognuno è buona come il pane e un reperto e-mail vale come l’oro. Un processo meno incentrato nello stabilire le colpe e più sul determinare il preciso grado di carognaggine di Zuckerberg. Quale esso sia poi resta soggettivo, perché alla fine il giovane milionario non ne esce né diffamato come avido e stupido, pronto a sacrificare quei pochi amici che ha per arrivare al successo (che poi più che di denaro il suo è desiderio di rivalsa sociale), né esaltato come mito dell’anticonformismo. Gli autori proseguono anche in questo caso sul loro percorso, ben più pericoloso, per i produttori soprattutto, cercando di evitare delineazioni nette. Mark Zuckerberg sarà molte cose per ognuno di noi, ma per il mondo nel suo complesso è sicuramente la vittima di un disagio sociale che è in grado di trasformare in un codice informatico d’avanguardia. E’ un hacker, un antieroe, un anarchico che cerca di scontrarsi con le persone che hanno reso il suo mondo infelice, che ad ogni passo che fa per essere accettato finisce per far male a qualcuno, un tagliatore di ponti professionista. In nessun momento del film lo spettatore è portato a simpatizzare per lui, non c’è nessuna scena in cui il ragazzo si butta in terra e si raggomitola tremando perché si sente tanto solo. Non sono permesse distrazioni dal soggetto, che sono i fatti, non i sentimenti.
Per quanto riguarda le reazioni di carattere più intimo, quelle poi derivano involontariamente dalle circostanze, e il nostro protagonista, forse profondamente solo, o forse no, ci saluterà in compagnia di un computer e della sua pagina facebook.

L’assioma è quello di fotografare una società avanzata e interconnessa in cui i nostri profili e i nostri blog ci definiscono di più delle azioni che facciamo in carne ed ossa, ma che resta chiusa, ingabbiata da pregiudizi vecchi di secoli su come i nostri eroi e le loro nemesi dovrebbero apparire, parlare e agire. Infatti Mark Zuckerberg è un ragazzo che ce l’ha fatta, l’eroe della nostra storia, eppure resterà irreversibilmente instabile e fuori posto.

Tanti film mostrano che il denaro dà alla testa e trattano dell’avidità come motore del mondo, ma in fondo quante persone possono identificarsi con un ricco magnate? The Social Network stravolge le carte in tavola nel presentarci esattamente un ricco magnate, ma piagato da qualcosa con cui tutti possiamo relazionarci: un costoso – in termini umani - desiderio di accettazione che si tramuta in una cieca ambizione di scalata sociale.

Eisemberg ruba la scena a tutti, persone ed oggetti compresi, lanciando sguardi intorno a tavoli come se le persone che lo circondano fossero tutte imbecilli, sparando commenti caustici che un po’ fanno sentire tali anche noi, macinando parole alla velocità della luce, muovendosi, interagendo, e persino stando fermo come se al mondo esistesse solo lui. Strepitoso. Ci ha raccontato come la scena di apertura sia stata girata 99 volte. Ciò avrebbe probabilmente condannato alla pazzia qualsiasi attore, invece lui ha continuato a lavorare alla sua performance ciak dopo ciak e questo molto onestamente si percepisce, elevandolo a qualche prestigioso premio nella prossima award season.
Il cast tutto ben si adegua a questo standard, da Andrew Garfield, il migliore amico tradito, la parte più emotiva del film, un personaggio in 3D nel senso interiore; a Timberlake, la versione con codice postale californiano di Zuckerberg, astuto imprenditore e gran pezzo di merda, che si fonde nel suo ruolo spogliandosi della vecchia immagine di menestrello per teenager con coraggio e umiltà, provando che forse l’attore può farlo davvero. Certo gli servirà qualche altro colpo ben assestato per convincercene fino in fondo, ma questo è il prezzo da pagare per chi cambia carriera.

Il successo maggiore di The Social Network sta nel catturare la febbre della nascita di facebook implicando contemporaneamente che questo ha generato molti soldi e un effimero clamore ma non molto di più. Piena di rivalità, invidia e di orgogliosi mezzi geni questa storia ci rivela, alla fine, cosa? Molta solitudine. Sorkin e Fincher hanno ben amalgamato eccitazione e scalpore con un persistente, scuro pessimismo, in un film di persone che digitano davanti a computer e parlano dentro stanze, ma pieno di suspance come se fosse un vero e proprio thriller.

(Cristina Fanti)

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mercoledì 10 novembre 2010

I want to be a Soldier

Strano ma vero, nella loro categoria Valeria Marini è un’attrice migliore di Monica Bellucci. Lo so, neanche io lo credevo possibile, ma è così. Vi chiedo uno sforzo, me ne rendo conto, ma se riguardaste Matrix Reloaded, e lo comparaste ad I want to be a Soldier, in versione originale, capirete di che parlo.
Valeria Marini non sospira, parla. Valeria Marini non ha grande mobilità facciale per via di Mr. Botulino e della sua allegra famiglia, ma vi è un accenno di espressione. Valeria Marini ha un forte accento italiano, ma almeno parla qualcosa di simile all’inglese. Mi ha colpito, non posso dire altrimenti.

Non solo per averla schierata fra gli interpreti (sorvoliamo sul fatto che ne sia produttrice) il film è coraggioso.

Una storia delicata, di violenza, a tratti anche d’odio, di dipendenza, d’invisibilità. Parliamo di un bambino, un bel bambino, Alex. Delicato, mansueto, sognatore e studioso, che complice un edulcorato Sergente Hartman (parto della sua fantasia e “merito” di un’incombente televisione, simbolo della mala-educazione) si trasforma nel mignon di un naziskin.
Le immagini di guerra e di torture che la TV trasmette senza limiti scorrono sui suoi primi piani, proiettategli addosso e riflesse in tutta la sua stanza, dove si chiude a chiave, consapevole della sua disobbedienza. Graffiano quelle pareti di gomma che bendano gli occhi dei suoi genitori.
Il tracollo è immediato, e l’impotenza delle istituzioni, tutte, è denunciata senza mezzi termini, fino a costringermi ad ancorarmi alla sedia del cinema per non scattare fin dentro allo schermo e urlare contro questa madre distratta, questo padre naive e questa scuola impotente, prendere un bastone e colpire quel trasmettitore di fango e infamità fino a farlo esplodere con dovizia di scintille.

La regia non solo è molto curata, ma davvero raffinata, nei piani sequenza che ci costringono inermi di fronte alla cruda realtà e negli articolati balletti di macchina e attori, dialoghi che si accavallano su più piani scenografici, colori, angolazioni e luci interessantemente espressive.

Sottile e acuta, ma soprattutto molto funzionale, la figura dell’amico immaginario del nostro piccolo Hitler. Quando lo conosciamo è un astronauta, candido consigliere che lo aiuta con i compiti, a cena lo persuade dell’importanza di mangiare verdure per diventare grandi uomini, d’età, di statura e di mente, e gli racconta le meraviglie del cosmo, giocherellando con una leggera pochette da taschino bianca. Con il crescere della morbosa fascinazione per la guerra nella mente di Alex, e nella sua stanza con un repentino cambio di arredamento sostenuto da suo padre ma disapprovato dalla madre, l’immaginario stesso del film evolve e il candido astronauta, indossata una divisa militare con un tappeto di medaglie al merito e fumando sigari a tutto spiano, strepita a pochi centimetri dal suo orecchio elogiando impietosità, vendetta, disobbedienza, e sventolando vittorioso un piccolo fazzoletto rosso. Signore, si Signore.

Alex si rade i capelli e parla dell’odore di Napalm al mattino. Fergus Riordan ci regala una performance adulta, e non sono da meno gli altri interpreti.

Il lavoro di martellamento psicologico è chirurgico e indolore, così a un tratto mi trovo a provare antipatia per questo bambino che tenta persino di affogare quel fratello minore che gli ha tolto l’attenzione di mamma e papà; e disprezzo per questi ultimi, che nonostante i ripetuti appelli dello psicologo che segue Alex non riescono a vedere oltre le loro dispute matrimoniali. Non so se il regista volesse questo da me.

Ciò che ho sentito negli 88 minuti in cui la pellicola ha camminato mi ha portato però a riflettere su cosa voglia dire mettere al mondo un’anima ai tempi d’oggi. Questo sono sicura invece che lo volesse.

Vincitore del premio Alice nella città Under 12 al Festival del Film di Roma 2010, non è certamente solo un film per bambini.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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sabato 18 settembre 2010

Splice

Non sono la più grande fan di Adrian Brody ma devo dare a Cesare quel che è di Cesare, quando sullo schermo c’è lui sono pervasa da un improvviso, irreversibile senso di attrazione e di pace. Ogni volta mi chiedo come ci riesca. Non fa eccezione questa pellicola, in cui interpreta uno scienziato dal gilet di Willy Wonka a cui piace ascoltare musica rock ed in larga misura fare sesso.

Insieme alla sua compagna è a capo di un progetto di splicing, ovvero gioca a tetris con il DNA di diverse specie animali. Quando la loro ricerca comincia a farsi concreta e la società per cui lavorano ha bisogno di spingere sull’acceleratore per ottenere finanziamenti, Brody e la sua bella (Sarah Polley), in gran segreto, aggiungono alla loro mistura un codice genetico tutto speciale: quello umano. E così sorpresa sorpresa nasce Dren, che all’inizio rassomiglia ad una coscia di Chianina e via via invecchia con una rapidità esponenziale, diventando infine un incrocio fra una bella topa ed una gallina gigante, realizzata comunque con effetti digitali lodevoli, efficaci ma discreti. Dren è un ragazza un tantino irascibile, ha la forza muscolare di Hulk ed una coda dotata di artiglio degna del re scorpione. Attraversando velocemente tutte le fasi della vita, dall’infanzia alla maturità, passando per l’adolescenza, Dren sviluppa un rapporto complesso e sfaccettato con i suoi “genitori”, che ricambiano naturalmente con delle attenzioni altrettanto peculiari,vista la natura non proprio consueta della loro figlioccia.

Un thriller dunque, ma anche una delicata storia di coppia. Siamo davanti ad uno stufato a base di Frankenstain steso su un letto di Rosemary’s baby, farcito con una buona regia ed un pizzico di originalità (che non guasta!).

I temi della gravidanza e del saper essere genitori sono sottilmente inseriti qua e là lungo il nostro viaggio. Elsa (Polley) scottata da un’infanzia difficile riversa sul suo mostriciattolo tutte quelle cure ossessive che non ha mai ricevuto. Clive (Brody) chiuso nelle sue preoccupazioni di carattere etico vive e lascia vivere, con un atteggiamento molto pragmatico che porterà la coppia a scontrarsi. Nessuno dei due ha una connotazione nettamente positiva, ed è questa la caratteristica che maggiormente li rende autentici e dona al film quel tocco di sincerità che porta una necessaria ventata di freschezza al panorama del thriller contemporaneo. Riusciamo infatti a fare il tifo per loro e contemporaneamente a detestarli, toccando delle punte di disgustata incredulità per il loro orribile sfacciato oltrepassare alcuni capisaldi di moralità.

Delphine Chaneac lavora come un’attrice del muto, in un gioco di sguardi e piccoli tic del corpo che riescono nel difficile compito di creare una connessione emotiva fra il pubblico ed il suo inusuale personaggio senza risultare ridicola o smielata.

La mano del regista è sicura e fluida e si muove senza pause né monotonia in quegli ambienti dalla luce malata, come laboratori e stalle abbandonate, in cui si svolge la storia.

Quello che per larga parte è un ottimo prodotto, sebbene dichiaratamente di genere realizzato con intelligenza e sapientemente mantenuto oltre il livello della banalità, subisce purtroppo nella sua ultima parte un cambiamento di rotta verso atmosfere più tradizionali. Si passa da un brillante thriller cerebrale ad un più tipico horror “corri più che puoi” (con shoccante risvolto erotico) dall’elevato fattore di prevedibilità che stride, anche se non disturba.

Splice non ha paura né di abbracciare picchi di sentimentalismo verso la creatura protagonista né di portare i suoi personaggi e spettatori in territori terribilmente inquietanti. Contrariamente alla maggior parte dei film horror statunitensi dal budget sostenuto, siamo davanti ad un raro esempio di come si può fare bene.

(Cristina Fanti)

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