Visualizzazione post con etichetta italiani. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta italiani. Mostra tutti i post

mercoledì 22 dicembre 2010

Un altro mondo

Cronistoria del film di Natale.
Anni 80: Una poltrona per due.
Anni 90: Schwarzenegger fa il papà di famiglia, bambini cercano tesori e mettono trappole sentendosi grandi per un giorno, qualche batuffolo di neve e redenzione per tutti nel finale.
Anni 2000: donne nude, seni, sederi e volgarità.
Anni 2010: Silvio Muccino.

Tale pare la piega presa dal filone con questo lancio coraggioso della Universal durante la festività più amata dagli italiani. Coraggioso perché nel film non ci sono né Boldi né De Sica.
Bensì tanti sentimenti, anche se un po’ scorretti perché tutti facilmente affidati agli occhioni di Michael Rainey Jr., il bimbo protagonista, nero e orfano, praticamente un magnete di simpatie per il pubblico. Gli adulti invece, quasi tutti freddi e imbalsamati per la maggior parte del film, senza grande sforzo per gli attori chiamati a interpretarli, restituiscono una realtà un po’ troppo stilizzata. Secondo i produttori si tratta di una storia di redenzione che si fa paladina dei veri ideali da diffondere a Natale. La concorrenza di questi tempi è effettivamente abbordabile, ma in qualche modo il film, nonostante i vantaggi di cui sopra, esce sconfitto.

In conferenza stampa si parla di esistenzialismo, perché, nell’anno e mezzo in cui Silvio Muccino e Carla Vangelista (autrice del libro da cui il film è tratto) si sono impegnati a scrivere la sceneggiatura, hanno avuto abbastanza tempo per rimpinzarla di tutti i temi più vaghi e generici che attanagliano la natura umana: il razzismo, la solitudine, il rapporto con il proprio corpo, quello con gli altri, la povertà e dulcis in fundo la morte, che unisce sempre famiglie e spiriti e coagula la formula perfetta per le feste.
Chiuso il cerchio di questo “vero” film di Natale, si sente forte profumo di fiera delle banalità.

Muccino ci informa che ama i racconti di formazione ed è stato per questo attratto dal libro della Vangelista, che costringe i propri personaggi a guardarsi dentro, fare i conti con il proprio passato e diventare uomini. Peccato che ciò che vediamo nel loro profondo sia no-io-so.
La recitazione non aiuta; anche se come al solito tutti gli attori dichiarano quanto interpretare questo ruolo sia stato bellissimo, fuori dal comune, e che abbia dato loro la possibilità di mettersi alla prova, di abbattere barriere, di superare se stessi e migliorarsi nella loro arte, la piattezza ci affonda. L’unico ad emozionare qua e là è il bambino.

Le risate e i commenti in sala a scena aperta lo confermano: ad una interessante premessa del soggetto corrisponde una sceneggiatura inesistente e dei dialoghi da raccapriccio, vero motore di ilarità. Non si spiega come la scrittrice-sceneggiatrice abbia avuto la fantasia di martoriare volontariamente la sua opera narrativa. A condire, alcune scelte discutibili, come la lunghissima sezione di apertura in cui Silvio fa da narratore descrivendo ciò che i vari personaggi fanno in video. Didascalico, tautologico e ridondante. Neppure foneticamente interessante considerate le ripetute visite del nostro dal logopedista.

Ammirevole il coraggio che Muccino ha nel proporsi come autore cinematografico in un paese in cui l’arte va morendo. Uno dei pochi che ancora scrive, dirige e recita. I risultati fanno però presupporre che il ragazzo sia quantomeno acerbo, e che forse prima di lanciarsi a capofitto in opere bibliche sarebbe meglio si dedicasse ad uno solo dei settori di suo interesse, per approfondirne i meccanismi. Un Tarantino c’è già stato, e non è nato in Italia.

(Cristina Fanti)

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

mercoledì 8 dicembre 2010

Le cose che restano

La fiction televisiva, concetto interessante. Raccontare lentamente in sei ore, ovvero quattro puntate, quello che si potrebbe raccontare con un po' di ritmo in una volta sola. Non è un'idea che mi fa impazzire; al contrario sono molto parziale alla parola Santamaria. Perciò partecipo alla maratona di questo che vuole essere un film epico, una sorta di romanzo storico, un Ivanhoe de noantri, prosecuzione ideale di quei La vita che verrà e La meglio gioventù che hanno tracciato negli anni passati i modi in cui l’Italia ha reagito a quattro decenni di menate politiche e compagnia cantando.

Questa volta arriviamo al presente, capolinea della trilogia. La scintilla è una casa, culla di una famiglia calda e fracassona. Borghese e luminosa, a seguito della tragica morte del figlio più piccolo, così come la madre reagisce al lutto scappando in una clinica, così la casa si svuota e rimane al buio. I tre fratelli sopravvissuti cercano di trovare ognuno la propria strada attraverso conflitti e rapporti che permetteranno loro di ripopolarla stanza per stanza, restituendole le sue funzioni vitali e trasformandola nel simbolo della possibilità di creare nuove forme di famiglia, non più legate al sangue ma al bisogno di un’identità esistenziale talvolta ancor più profonda.

Per lanciare questo messaggio di positività, restare nella quotidianità degli eventi e fare nel contempo un quadro generale della situazione italiana di questo preciso momento storico si scomodano talmente tanti argomenti che il risultato è un calderone di tematiche grosso e confuso. Fornisco un conciso sommario.

C’è una psicologa, con tutte le pesanti implicazioni di questo mestiere. Soprattutto essa tratta il caso di un militare che a seguito di un incidente ha perso la memoria, si parla di guerra. C’è un laureato in architettura che però va a lavorare in cantiere, ed ecco il precariato. C’è un funzionario ministeriale che si occupa di controllo dell’immigrazione e ci porta con lui ad uno sbarco in Sicilia. C’è un omosessuale che s’innamora di un uomo che ha una figlia, si affrontano le coppie gay e la paternità. C’è la madre di questa figlia che è una tossica senza fissa dimora, su un piatto d’argento droga e vagabondaggio. C’è un malato terminale. C’è un locale di spogliarelliste che nasconde un giro di prostituzione e di sfruttamento di straniere, una delle quali è brutalmente uccisa, guidandoci alla riflessione su una salma non identificabile che “tornerà al suo paese senza un nome e senza amici”. Ci sono un paio d’immigrate che cercano di ottenere un visto, un ulteriore pizzico d’integrazione culturale. C’è un aborto, tradimenti e divorzi, per parlare della vita e del valore della famiglia. C’è un architetto che indaga sugli abusi avvenuti in un orfanotrofio che sta cercando di restaurare, ombre di violenza; lo stesso architetto con il progetto dell’orfanotrofio cerca di vincere un concorso, per voi l’amministrazione pubblica. C’è una madre che impazzisce dopo la perdita del figlio, si medita sulle malattie mentali. Naturalmente poi c’è la morte di un diciassettenne, con tutte le conseguenze del lutto, e cioè la fiction stessa.
A coronare questo polpettone (nel senso di una pietanza fatta di tanti ingredienti, per carità), senza alcun motivo, durante una panoramica di un parcheggio, indugiamo per qualche lungo secondo su un pulmino dal quale scende un gruppetto di ragazzi down. Meno male, adesso non manca proprio niente.

L’impressione è che in Italia non si riesca a mantenersi su un nucleo narrativo solido, piuttosto quando si opta per progetti importanti come questo si sente sempre il bisogno di allargare lo spettro dell’indagine alla società tutta. E così ogni volta si producono film che durano mezza giornata e che per ovvi motivi hanno come unico sbocco possibile la televisione. Nonostante una disponibilità di tempo tanto generosa alcune situazioni sono ugualmente poco approfondite e nebulose. Il rapporto romantico fra un’immigrata e il poliziotto incaricato di sorvegliarla, su tutte, è superficiale, banale e assolutamente non declinato.

Considerato ciò la storia resta comunque scritta bene, uno o due personaggi sono molto intriganti e i dialoghi in alcune scene davvero sopra la media. Insomma non stiamo parlando di una soap con Gabriel Garko. Sicuramente e genuinamente un altro livello.
La musica è curata con zelo, bella la scelta di utilizzare tanta classica; alcune svolte registiche palesemente cinematografiche non passano inosservate; pulita la fotografia che ricerca riflessi arditi in scene come quella in cui il volto di un uomo si riflette  negli occhi della donna che ama, ed appare e scompare ad ogni battito di ciglia.

Le linee narrative migliori e i momenti più toccanti sono riservati all’amore, delicati e sentimentali al punto giusto, a onor del vero ben fatti, tra le coppie Balducci-Liskova e Santamaria-Neuvic. Proprio Neuvic e Fantastichini regalano performance da brividi.

Quest’ultimo dichiara di avere una visione rosselliniana della TV che dovrebbe educare le masse, aumentare la qualità della loro coscienza civile, insegnare a combattere l’intolleranza, a promuovere l’integrazione e l’armonia; proprio quello che ottiene a suo parere Le cose che restano. Non condivido, credo invece che questo prodotto rischi troppe volte di ottenere l’effetto contrario, di essere noioso e di scoraggiare in ultimis lo spettatore. In tutta onestà se non fossi stata invitata a vederlo senza soluzione di continuità in una sala cinematografica, e non avessi accettato causa casting furbetto di Santamaria, i troppi elementi di piattezza dell’intreccio, la mancanza di colpi di scena, la poca affezione sviluppata con la vicenda e soprattutto la vocazione troppo generalista della serie non mi avrebbero affatto invogliato a collegarmi di settimana in settimana per gli episodi successivi.

Le cose che restano andrà in onda in prima serata su Rai Uno dal 13 Dicembre. Ve lo consiglio, come blando sonnifero.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

CHE NE PENSI DI QUESTA FICTION?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

martedì 16 novembre 2010

Io sono con te

Qualsiasi film che prometta di raccontare Maria di Nazareth senza affrontare temi religiosi scatenerà la mia curiosità. Questo è stato per Io sono con te. Con curiosità appunto mi sono approcciata alla sala e ne sono uscita alla fine della proiezione dopo un quarto d’ora di applausi.

Un regista che viene dal documentario, e si vede. Attori presi dalla strada, anzi fuoristrada, nella campagna Tunisina. Al Festival del Cinema di Roma l’abbiamo visto in dialetto Arabo, immagino che al cinema verrà doppiato. Ormai è classicamente noto come il tocco alla Mel Gibson, ed effettivamente continua a funzionare. Certo è che una produzione americana a volte si lascia impossessare da questi folkloristici lussi idiomatici, una italiana mi permetto di dubitarne.

L’assioma di Guido Chiesa è che un bambino, per quanto parzialmente divino, acquista personalità e strumenti relazionali attraverso i propri modelli genitoriali. E d’altra parte Dio non avrebbe affidato a due umani qualsiasi la cura della sua controparte mortale. Di conseguenza appare chiaro che, in un contesto religioso che identifica nella donna il principio della salvezza, l’uomo straordinario che la Bibbia descrive, a prescindere che ci crediate o meno, debba aver avuto una madre fuori dal comune.

La storia della ragazza che ha cambiato il mondo, cita il sottotitolo, e questo è. Seguiamo Maria dalla concezione alla disputa di Gesù con i dottori nel Tempio. Nel mezzo Erode è alla ricerca della progenie dei cieli, e testa tutti i bambini di Betlemme con quiz di logica e domande a trabocchetto molto poco divine. La nostra protagonista affronta le piccoli grandi sfide dell’essere donna in una società primitiva e maschilista, instaurando un forte equilibrato dialogo con il marito, educando il proprio figlio alla libertà, mettendo in discussione i capi saldi dell’Ebraismo per seguire il suo istinto. Il suo istinto, non un’altra religione. Non soffia un alito di Cristianesimo in questa pellicola, per lo meno per chi non ce lo voglia trovare.

Chiesa è molto crudo nei dettagli che sceglie di mostrare, la regia è asciutta ma efficace. Il tempo scorre senza annoiare e questo ai giorni d’oggi lo considero già un grande traguardo.

Le ricerche condotte sul materiale riportano in parte ai Vangeli e in parte a idee originali frutto d’invenzione; soprattutto per quanto riguarda gli ambienti si opta per un mondo policromatico in contrasto con la tradizione cinematografica del genere. I costumi di Valentina Taviani sono sopra ogni cosa uno splendido regalo per gli occhi. Permeano la nostra visione con un girotondo di colori che evidenzia le personalità dei protagonisti in maniera sottile e mai scontata. Curatissimi nella scelta delle stoffe e più in generale semplicemente belli.

Naturalmente il fascino di un’opera del genere risiede anche nelle riflessioni che genera. Per quanto mi sembra di aver reso abbastanza chiaro che ho molto gradito questo lavoro, sia per la realizzazione che per le idee interessanti, c’è chi non è d’accordo con me. Cito dal sito mirabilissimo100.wordpress.com:

Guido Chiesa non conosce le Sacre Scritture, la storia e la religione del popolo ebraico, quindi il suo racconto non solo è falso ma anche blasfemo e contro la Sacra Famiglia. 
Falsificare i Vangeli è un gravissimo peccato, mentre i vangeli inventati da uomini atei non servono a nulla, anzi portano all’inferno, il Vangelo, la Parola di Dio, la Sacra Bibbia sono la Via, la Verità, la Vita eterna e la Salvezza.
Chi racconta falsità verrà condannato; “Vi assicuro che nel giorno del giudizio tutti dovranno render conto di ogni parola inutile che hanno detto perché saranno le vostre parole che vi porteranno a essere condannati o a essere riconosciuti innocenti”, Vangelo secondo Matteo: 12, 36-37.

Attenderò dunque, insieme a Guido Chiesa e alla troupe del film, il nostro Armageddon.

(Cristina Fanti)

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

lunedì 15 novembre 2010

Dalla vita in poi

Di solito diffido del cinema italiano, e ne sono contenta. Perché quando mi capitano sott’occhio quelle rare gemme, rare è la parola chiave, sono sinceramente sorpresa e rincuorata.

Dalla vita in poi è un film troppo poco socialmente impegnato, troppo poco lento, troppo squisitamente romantico, troppo ben diretto, anche, per essere italiano. Eppure lo è, genuinamente italiano. La storia è vera, il regista ha incontrato la protagonista, amante di Manfredi che braccava i set in cui anni fa lavoravano insieme, e ci è diventato amico.

Lei, Katia (Cristiana Capotondi) è affetta da sclerosi multipla, nel corpo, non nell’animo. Intrattiene un rapporto epistolare con un detenuto, 30 anni per omicidio, Danilo (Filippo Nigro) e si innamora di lui. Semplicemente, candidamente, e con la forza di un’eroina di Jane Austen.

La Capotondi dice di essersi affezionata al progetto perché conteneva qualcosa di epico seppure all’interno di una marcata contemporaneità. Ha ragione. La malattia e la detenzione sono forze sovraumane che ostacolano l’amore di queste due persone che nonostante tutto continuano a crederci, con caparbietà ed ironia. Una passione assai vintage, per così dire, in una realtà molto poco passionale.

Malattia e detenzione, in fondo questa pellicola qualcosa di sociale ce l’ha; si, ma con leggerezza. Il regista sottolinea che non sta raccontando un fatto di cronaca e non vuole fare denuncia, bensì dipingere dei personaggi. Ci riesce benissimo. Complice una sceneggiatura praticamente perfetta, equilibrata tra amarezza e dolci baci, carica di ritmo come un cuore che ama, mai sdolcinata come chi lavora in prigione. Danzando fra presente e passato (prossimo) disegna piccole scene che funzionano da sole. La musica e un buon montaggio le condiscono di una piccante adrenalina. E soprattutto incanta quell’ironia che fa risplendere la protagonista come un sole di Dicembre, lucente ma fresco. Sagaci i riferimenti alla realtà quotidiana, come la proclamata volontà di chiamare Striscia la Notizia, o l’intera rosa dell’AS Roma, anche questa un po’ vintage, che si allena a Trigoria.

La regia sceglie di non far vedere molto la sedia a rotelle su cui Katia è costretta, gioca su primi piani interessanti e non ha paura di scoprire, seppur senza sottolineare, la profondità dei suoi personaggi.

Gli attori sono per lo più spontanei, la romanità li aiuta, e tutto sommato si lasciano apprezzare. E’ una buona idea tenere Filippo Nigro in mutande per metà film. Solo Pino Insegno nella parte del sovraintendente di polizia mi ha lasciato perplessa. Al di là che un agente che parla romano in dizione non l’ho mai sentito, forse ci ha troppo abituati a vederlo nei panni di se stesso, e in divisa mi sembra quasi che ci stia prendendo in giro.

Decisamente un film da provare per chi spera ancora che il cinema italiano risorga dalle sue ceneri.
Delicato, come una scritta su uno specchio appannato.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

sabato 18 settembre 2010

Butterfly Zone

La premessa di questo film è a tratti interessante.
Un’astronave emana un raggio luminoso sottolineato dall’audio di una lingua aliena. Nei sottotitoli a corredo si legge che l’ET in questione ha commesso un grossolano errore e viene sgridato da quello che è presumibilmente il suo capo. Ci sembra di assistere ad un battibecco tipico di quei mostriciattoli verdi delle puntate di Halloween dei Simpson, alieni guasconi e casinari all’Americana.
Si ha questa idea dall’incipit della storia: uno sci-fi movie dalle tinte ironiche. Un tentativo di traduzione all’amatriciana di film come Independence day o Mars attacks. I miei occhi sbrilluccicano e l’attenzione si desta. Magari fosse così. Naturalmente, ne ho la conferma poco dopo, c’è un motivo se i film di fantascienza si fanno negli Stati Uniti e non in Italia.

L’assunto è folle. Il raggio alieno della prima scena che ha colpito la vigna di Francesco Salvi ha trasformato i suoi chicchi d’uva in passaporti per l’aldilà e così un sorso del vino che ne deriva permette di viaggiare a cavallo delle coscienze, in una dimensione ultraterrena che però mi sembra non abbia molto da dire. Il tutto si trasforma in thriller quando accidentalmente, attraverso questo ponte interdimensionale aperto dal vino, torna sulla terra un sadico assassino guidato da un qualche istinto mistico a la Codice da Vinci, che però sfortunatamente non fa paura a nessuno ed è credibile quanto il Puffo Burlone.

Il regista stesso, per darsi un tono cinefilo, dice di amare la commistione e di aver infatti su di essa puntato tutto. Forse però non ha controllato che sul dizionario alla voce “commistione” non c’è scritto: accozzaglia informe di elementi di genere. Comicità da bar dello sport, presenze surreali - come una banda musicale immobile in un campo di grano (per nessun motivo apparente), citazioni a caso tanto per gradire - come Barbara Bouchet vestita da Salvador Dalì, e via discorrendo.

Nel sottobosco della trama un vecchio uomo d’affari cerca di appropriarsi del vino in questione per poter così controllare le nascite e le morti. E’ un concetto che non ho avuto neppure voglia di analizzare, ma nella sua rappresentazione, nella sua recitazione forzata, mi ha ricordato il piano malefico di un nemico molto poco riuscito della serie televisiva Streghe.

Gli attori sono spesso innaturali, anche se il regista ostenta un gioco alla libertà di espressione che avrebbe dovuto facilitare gli interpreti nel raggiungimento della naturalezza espressiva. Alessandra Rambaldi ne esce particolarmente sconfitta.

La stessa scelta dei nomi dei protagonisti la dice lunga sulla predisposizione dello sceneggiatore/regista/curatore della colonna sonora, fin troppo strambi e ricercati, come se ci volesse far ridere ad ogni costo, come se in ogni minimo particolare sentisse la necessità di sottolineare la sua peculiarità artistica e il suo coraggio nell’aver realizzato un film così “colorato” – traduci: “pretenzioso”.

All’uscita dalla proiezione ci regalano una bottiglia di vino, forse per aiutarci a dimenticare.

(Cristina Fanti)

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?

Una notte blu cobalto

La prima sensazione che questo film mi ha trasmesso è stata una pacata, apatica angoscia. Non so se fosse per la spocchia da adolescente forzatamente anticonformista di Regina Orioli, fissa, immobile nella sua rara antipatia, o quella sciarpetta da intellettuale fallito perennemente avvolta al collo di Corrado Fortuna. Una delle due cose comunque, probabilmente volute, mi ha sussurrato appena entrata in sala che questi personaggi fossero imprigionati in una dimensione di vuoto cosmico.

Lui, Dino, è stato lasciato da lei, Valeria, e non se ne riesce a fare una ragione. Per questo gironzola per Catania senza uno scopo nel cuore della notte finché un magico impulso non lo spinge a proporsi come garzone per una pizzeria, la Blu Cobalto. In questo luogo un po’ fuori dal mondo il proprietario, che sembra più che altro un sofisticato addestratore di marines che cita Sunzi a spron battuto, gli imporrà una serie di strambe consegne.
Fra un’inquadratura di un monumento e l’altra, i clienti in cui si imbatterà il nostro protagonista insieme alla sua inseparabile pashmina tolgono l’aria a chi guarda. Solitudine, pazzia, morte, vecchiaia, infanzia abbandonata, questo il terreno minato degli aficionados della pizza blu cobalto. Nelle loro brevi apparizioni non lasciano nulla allo spettatore (a parte, di nuovo, una lieve angoscia), sono entità quasi fantasmatiche, a dire il vero un po’ troppo fini a se stessi, macchiette, per così dire.

Che si tratti di una specie di onirico viaggio di formazione si capisce alla seconda consegna, davvero troppo surreale per suggerire qualsiasi altra ipotesi, e alla quarta, quinta e sesta nulla viene aggiunto. La storia semplicemente continua a ripetersi. Fino al finale risolutivo, che chiama in causa polveri magiche, scatole luminose e lucciole danzanti.
Una sorta di sapore fantasy che però non riesce a rendere gustosa la trama, che giace tutto sommato senza senso. Scontato il messaggio di redenzione per cui Fortuna e la sciarpetta radical chic superano quel senso d’inadeguatezza lasciato loro dal broncio con cui la Orioli si veste dal 1997.

Davvero le nostre nuove leve cinematografiche vogliono accontentarsi di questa pochezza a livello di contenuto? Ciò stupisce soprattutto perché al contrario il film merita molto a livello formale, ricco di inquadrature interessanti, piani sequenza elaborati che integrano diversi piani temporali, la tecnica è padroneggiata molto bene, perfino in un’improbabile scena d’amore seguita con molto gusto e gentilezza.
Gangemi è alla sua opera prima ed è riuscito a far produrre e distribuire un film realizzato con 500.000 euro senza aiuti statali. Per di più non si tratta di una storia di polizia, carabinieri, mafia o immigrazione nel più classico stile italiano. Per questo, anche se dalla sceneggiatura si poteva spremere di più, il film merita di essere supportato.

(Cristina Fanti)

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?

venerdì 17 settembre 2010

Un canzone per te

Lasciatemi confessare che sono un’appassionata di commedie americane, e negli anni ho masticato abbastanza film liceali da avere il palato fine.

Alla conferenza stampa di Una canzone per te si mettono subito le mani avanti: “è una commistione di generi” dice il regista, alla sua opera prima. Un eufemismo, che tradotto ci dice che ci troviamo davanti ad una grande accozzaglia.
Si fanno nomi importanti: John Hughes (il genio che negli anni 80 ha reinventato il teen movie), Ritorno al futuro, Slining doors. Come riferimento musicale gli Zero Assoluto (presenti in conferenza perché autori di una delle canzoni della pellicola) nominano Juno. Che coraggio.

Questa la trama: un ragazzo scapestrato ma molto “figo”, fidanzato con la più bella della scuola, rischia di perdere l’anno scolastico perché dedica più tempo alla musica che allo studio. Il giorno del compito d’italiano una serie di cose gli vanno storte, tanto da lasciarlo senza band e senza dolce metà. Grazie ad una specie di guru telematico avrà una seconda chance di rivivere quella brutta giornata e possibilmente farla andare meglio, o peggio… Il tutto lo porterà a scoprire nuove amicizie e profondità del suo stesso animo.

Ho parlato di accozzaglia perché il sapore fantastico con cui si comincia viene ben presto accantonato e totalmente dimenticato. Eppure era proprio questa la parte più innovativa della pellicola, che apriva il genere adolescenziale italiano a nuovi stilemi mai tentati prima. Il tutto scivola invece verso il più classico topos dell’amore al tempo degli esami di maturità, che avendo un predecessore di alto rango come Notte prima degli esami affronta uno scontro impari.

Si è detto che si voleva arrivare ad un prodotto che miscelasse il meglio della tradizione americana ed italiana. Ecco, il secchione di turno, Guglielmo Scilla (popolare Youtuber che è stato scelto proprio grazie alla sua notorietà mediatica, cosa già di per se molto a stelle e strisce), è un personaggio che sembra arrivare dritto da Los Angeles, con le sue gag, smorfie e magliettine improponibili. Tra l’altro somiglia a Jack Black. D’altra parte il padre del protagonista, Sergio Albelli, è il prototipo del romano che tanti comici negli anni hanno contribuito a realizzare. E funzionano, entrambi.

Purtroppo nel mezzo c’è tanta mediocrità. Michela Quattrociocche è la ragazza perfetta, una sorta di Cher di Clueless dopo una lobotomia. Andrea Montovoli è il rocker borchiato che fa tremare tutti, mi ricorda il Patrick Verona di 10 cose che odio di te, solo che in quel caso si trattava di Heath Ledger, e Heath Ledger ha vinto un Oscar. Martina Pinto fa la sgualdrina, la pallida ombra della Nadia di American pie. E Carolina Benvenga la maledetta invidiosa, quella Lana di Pretty princess.

Forse ho perso il contatto con quello che è l’universo liceale di questi tempi, fatto sta che c’è qualcosa che non mi torna. La storia fresca e gli occhi azzurri di un bel giovine nonostante i tempi che cambiano sicuramente avranno ancora la forza di catturare i cuori delle quattordicenni, ma una domanda mi attanaglia: come può il direttore artistico di Mtv in persona, che ha curato la parte musicale, pensare di accattivare i ragazzi parlando loro degli eroi del rock classico e poi pretendere di emozionarli con i Sonohra??

Purtroppo finché in America continueranno a fare film come Mean girls non ce ne sarà per nessuno.

(Cristina Fanti)

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?

La valigia sul letto

Eduardo Tartaglia alla conferenza stampa di presentazione del film parla di napoletanità esportabile. Questo concetto pare sia legato al mantenere al minimo le espressioni dialettali e offrire al pasto del milanese-tipo una spruzzata di luoghi comuni qua e là.

E infatti c'è il boss mafioso, con i baffi neri neri e la pelle dorata, c'è il protagonista dalle gote rosse a cui, si vede al primo sguardo, piace tanto mangiare la pizza e i babà, e la giunonica partenopea che, per citare Biagio Izzo in una scena del film, possiede prua e poppa di alto rango.

Achille e Brigida sono una coppia di fatto che si barcamena in una vita di stenti. Impiegato lui, più estroversa lei, garzona di una macelleria per cui fa consegne vestita da polpetta gigante. Quando viene licenziato Achille tenta il tutto per tutto con un lavoro di ripiego, in nero, come guardiano notturno dei cantieri della metropolitana (come dire più in basso di così c'è solo da scavare), all'interno dei quali i due finiranno anche per vivere a seguito di uno sfratto.
Ma ecco che con un'improvvisa sterzata della sorte il nostro protagonista si scopre imparentato con un temutissimo boss mafioso neo pentito, e per questo è costretto a fuggire con i suoi cari (ed il boss in questione) come previsto dal programma di protezione della polizia, lasciandosi dietro cantieri e miseria per una terra promessa che spera dia loro l'opportunità di ricominciare.

Naturalmente non avranno vita facile in quanto il boss di Biagio Izzo, Antimo Lo Ciummo, venticinque anni di latitanza e per questo detto “l'Antimo fuggente” (la sala a cuor leggero ridacchia, immagino lo farà anche il milanese-tipo), ha alle costole un'efferata assassina, Alena Seredova. A farle da controparte un Maurizio Casagrande commissario di polizia che gioca molto su una professionalità dalle tinte grottesche.

Ho apprezzato in alcuni passaggi il tentativo di creare un'atmosfera action-thriller dai sapori internazionali. Inquadratura dall'alto, ralenty e suspance musicale; una morona da schianto estrae due pistole a canna lunga che sembrano prese in prestito da Angelina Jolie e si lancia in una smitragliata d'autore che Rambo sarebbe onorato. Certo è che la morona indossa il costume da polpetta gigante e allora mi ricordo che siamo a Napoli e sorrido.

Questo film ha certamente i suoi momenti, la napoletanità di cui si parlava è molto vera e piacevole. Tartaglia, Mazza e Izzo sono ottimi, Casagrande buono, Seredova rimandata.

(Cristina Fanti)

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?