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lunedì 2 maggio 2011

Come l'acqua per gli elefanti - Water for elephants

Capita a volte di discutere con chi non mangia pane e cinema su cosa faccia di un film un bel film. C’è chi crede che la chiave di volta sia la storia e non si accorge com’è appunto scopo del filmmaker dell’importanza della tecnica, che senza farsi notare costruisce e arricchisce l’opera al di fuori e al di sopra di ciò che essa racconta. Spesso in tali situazioni è difficile sostenere questa teoria senza esempi chiari e tangibili e a ciò Come l’acqua per gli elefanti ci viene incontro.

Una reinterpretazione del Titanic di James Cameron ambientata in un circo itinerante invece che su un transatlantico, e sviluppato a parti inverse. E’ infatti l’anziano Jacob ad essere presentato in apertura e a raccontare ad un giovane fintamente interessato le sue avventure amorose del 1931. Attraverso un lungo flashback scopriamo che Jacob è stato costretto dalla morte dei suoi genitori benestanti a vagare ramingo sui binari del treno e, saltando su un vagone a caso, è finito con il diventare il veterinario del famigerato circo dei fratelli Benzini. Si è innamorato poi della moglie del crudele direttore, che naturalmente, scoperto l’inganno, ha preteso la sua testa su un piatto d’argento. Salvo che, indovinate, l’amore ha trionfato, e dopo aver salvato la sua amata su una metaforica porta galleggiate, Jacob ha condotto una vita piena di gioie e di bellissimi ricordi.

Ma veniamo alle differenze. Per quanto entrambe le pellicole appartengano a un genere dichiaratamente sdolcinato e non gradito dai palati di tutti, non si può negare che la stesura e la realizzazione del colossal del 1997 sia stata curata nei minimi dettagli e giunga dunque, senza che questi ne individuino necessariamente i meccanismi, al cuore degli spettatori.

Tredici anni dopo non si usa la stessa attenzione, e benché la storia del romanzo da cui il film è tratto abbia avuto successo fra milioni di lettori, la sua trasposizione cinematografica è piatta come l’encefalogramma di un elefante. I personaggi hanno lo spessore di un post-it, e così di conseguenza la loro storia d’amore, che sboccia senza preavviso come una verruca. Un uomo e una donna che si conoscono appena e che all’improvviso si dicono “ti amo”, questo il sunto. Chiaramente si è puntato tutto sulle ricche atmosfere circensi, dimenticandosi che per un piatto ben riuscito bisogna dosare in maniera intelligente tutti gli ingredienti. Se ciò non avviene, anche se chi degusta non sa definire il perché, non gradisce il sapore di ciò che gli si serve.

L’unico lampo di recitazione brilla negli occhi di Christoph Waltz, che forse dovrebbe meditare di licenziare il suo agente. L’attore prova a lanciare piccoli ami di onore e compassione nel complesso del suo personaggio, ma il film è scritto con tale banalità nell’approccio alla dicotomia bene-male che tutti i suoi sforzi sono vanificati in un grosso cliché. August, il viscido direttore che maltratta animali e uomini, è ingoiato in un tunnel che lo costringe ad essere nulla più di questo. Il suo tentativo di scrollarsi di dosso il puzzo del colonnello nazista fallisce dunque, e anzi lo incasella ancora di più nello stereotipo del cattivo.

Reese Witherspoon ha una bella parrucca.

Di Robert Pattinson è meglio non parlare, non si spara sulla croce rossa.

(Cristina Fanti)
da cinema4stelle.it

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mercoledì 2 marzo 2011

The Fighter

Un film cullato per tre anni, nato da un cortometraggio, voluto con fatica da persone che si sono innamorate della storia di redenzione di questi due fratelli e ci hanno creduto. Giunto nelle mani di Mark Wahlberg, lui, appassionato della vicenda già da tempo, e combattivo più che mai, lo ha portato alla luce, la luce del Massachusetts, che ha impressionato la pellicola con i toni spenti della periferia. Scenografie, costumi e apparenze poco lusinghiere degli attori costruiscono un mondo reale e crudo, un crudo neppure troppo ripulito con il noto smacchiatore “Hollywood”. Questa troupe ha giocato a fare l’indipendente, mostrando di affidarsi alla recitazione invece che ai numeri della produzione. Una decisione che giunge dal cuore ma che forse al cuore non arriva fino in fondo.

Si tratta di un Rocky impolverato, rotolato nel terriccio e sgrullato grossolanamente. Lo scheletro del film è lo stesso di molti altri del genere, una storia di drammatiche conquiste atletiche, ma la forma e il tono della carne poggiata sopra queste ossa distingue The Fighter da molti dei suoi cugini cinematografici. La storia di Mickey, che cerca nelle difficoltà di arrivare al successo, con un allenatore drogato, suo fratello, vecchia gloria della boxe, e una manager alcolista, sua madre, che si crogiola nel bagliore della fama ormai scaduta del primogenito, costituisce l’arco narrativo. Ma sono i personaggi ciò su cui batte il fuoco la macchina da presa. Fallati e pacchiani come oggetti acquistati al discount, ma, come questi, anche positivamente basici, veri, all’osso. Russell non si allontana quasi mai dalle facce e dai corpi dei suoi protagonisti, lasciando che le loro espressioni e i loro gesti, sia fuori che dentro il ring, veicolino il nucleo pulsante che si cela dietro lo spettacolo offerto dallo sport, che è poi il punto stesso del film. E’ aiutato dalle scintille che emanano i dialoghi, fruste lanciate avanti e indietro come affilati pugnali.

I blocchi di scene corali della famiglia Ward-Eklund sono la cifra di un film costruito con cura. Nulla giace troppo a lungo e lo stile di lotta testa-corpo/testa-corpo che ha reso famoso Ward ha un eco nello stile di regia di Russell, che alterna nel suo spartito boxe-famiglia/boxe-famiglia. Il film si apre con un’ottima prima scena, apice artistico della pellicola, nella quale seguiamo Dicky e Mickey che camminano per strada, facendosi belli in giro per il quartiere, tampinati da una troupe televisiva che filma quello che Dicky pensa sarà un documentario sul suo ritorno al ring. La macchina da presa è portata con leggerezza, s’incunea e si ritrae dalla messa in scena, danza come un pugile, ma presto poi purtroppo si dimentica di come si combatte.

Mickey Ward è uno strumento monocorde. Nella vita, trascurato in favore delle sue sorelle impossibili e del suo vistoso fratello, ha sempre parlato poco e picchiato molto. In questo senso Wahlberg lo suona alla perfezione, sembra quasi non recitare affatto e si potrebbe perfino incolparlo di aver lasciato che il cast di supporto riuscisse nell’adombrare così tanto il proprio leader (non a caso è l’unico rimasto a secco di nomination).

Dicky d’altro canto ha una mente fenomenale e conosce la boxe meglio di ogni altra cosa. Ad eccezione di dove trovare del crack. Bale ci convola a nozze, ci mostra un angolino di recitazione con la “R” maiuscola e ci apre un mondo, come è solito fare. A questa divinità del trasformismo va incontro la più nuova moda cinematografica, che prevede per i film basati su persone reali il dovere legale di mostrare almeno un fotogramma, sentimentale e celebrativo, di queste stesse durante i titoli di coda. E così li vediamo, tanto riconoscibili quanto ovviamente non così attraenti come i divi che prestano loro il corpo, a sottolineare l’autenticità del film con la loro palpabile verità, e il lavoro che questo sconvolgente attore ha palesemente compiuto su se stesso si tinge di nuove profondità.

Nonostante tutte le nomination agli Oscar, e le relative vittorie, The Fighter andando a stringere non è altro purtroppo che la somma delle sue parti e una semplice, discreta vetrina per far brillare ancora una volta la più eclettica, meravigliosa stella del firmamento hollywoodiano, un certo Christian Bale.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it


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sabato 19 febbraio 2011

Un gelido inverno - Winter's bone

Il cinema americano ci mette nuovamente di fronte alla storia di un’adolescente. Questa volta invece del classico armadietto nel corridoio della scuola c’è una cucina scassata; al posto della squadra di football c’è una madre catatonica e due fratelli da mantenere; invece di pigiama party e sedute di trucco c’è la caccia e lo scuoiamento di piccoli scoiattoli; a sostituire il fidanzato biricchino un padre che spaccia metanfetamine, ed è momentaneamente scomparso.

Un gelido inverno appartiene alla più classica categoria di film da festival indipendenti, conquistati da storie gravi di gente miserabile che vive negli angoli più poveri del paese, i cosiddetti “stati da sorvolare”, e i cui alti e bassi morali ed emotivi sono accompagnati da chitarre acustiche e panorami evocativi, generalmente indifferenti allo humor.

S’inizia con una melodia sottotono nell’indigenza di una casa divorata dal bosco e si finisce con un crescendo horror con sega elettrica in un lago illuminato dalla luna. Questo spartito segue l’errare di una ragazza costretta a mettersi sulle tracce di suo padre quando questo usa la loro casa come cauzione. Per tenere un tetto sulla testa di tutti Ree (Jennifer Lawrence) deve trovarlo e portarlo in tribunale il giorno designato, ma nel tentativo di condiscendere a questo insolito obbligo familiare comincerà a far emergere segreti che non hanno un buon odore. Girovaga nel sottobosco di porta in porta chiedendo informazioni, aiuto o solo un brandello di basilare gentilezza.

Così facendo è costretta a tradire il codice del silenzio che mantiene la sua famiglia allargata, quasi l’intero paese, fermamente e orgogliosamente sul lato sbagliato della giustizia, oppure affrontarne le conseguenze. Ree è una moderna Antigone dalle pretese etiche che sono insieme interamente coerenti e potenzialmente fatali. Sebbene conosca e accetti le regole tribali che guidano il suo mondo, deve scegliere di scavalcarle, armata di un senso di giustizia considerato come il peggior sgarbo possibile da chi la circonda.

E’ tangibile il rammarico dei compaesani di non poter togliere di mezzo questa ragazzina ficcanaso causa legami di sangue, seppur labili. Allo stesso tempo le promettono tanto dolore, molto più di quello previsto per uno sconosciuto comunque, se tiri troppo la corda di questo privilegio.

Chiunque conosca la verità su suo padre è disposto a tutto per tenerla nascosta. Chiunque la incontri la fulmina con gli occhi. La persona potenzialmente più pericolosa di tutte è suo zio Teardrop – dal tatuaggio a forma di lacrima sotto l’occhio sinistro - (John Hawkes). Dà l’impressione che in ogni istante potrebbe aiutarla, assalirla o ucciderla. Il pubblico non può attestarlo con sicurezza, così anche Ree, e nemmeno Teardrop stesso.

Alcuni degli attori non sono professionisti e fra un tocco di banjo e una passeggiata nel bosco, in una pellicola che tutto sommato è molto taciturna, ci consegnano di quando in quando le loro battute con perfetta ingenuità (e accento, che si perde naturalmente al doppiaggio).

Granik ci presenta un dramma naturalistico con punte di thriller inaspettate usando musica country per sottolineare lo stoicismo e la melanconia di questo brutale mondo privo di morale.

Ad una scena, quando Bree tenta di entrare nell’esercito per incassare i 40.000 dollari di ricompensa, affida la risoluzione dl film. Il soldato che intervista la ragazza demolisce con tatto il suo sogno di scappare. Lui appartiene a un mondo fatto di possibilità ragionevoli, Ree vive altrove, in un universo governato da antichi rancori ed elaborati, inflessibili obblighi, onore e vergogna. E così il film si trasforma in ciò che in definitiva è: una storia di formazione attraverso cui la protagonista scopre quanto sia crudele il suo habitat naturale e contemporaneamente sia iniziata ad esso senza grande concreta possibilità di fuggire.

Noi però possiamo fuggire senza problemi da questa pellicola che fa sensazione per la bravura dell’attrice, come tante altre brave attrici, e per le tematiche scomode, trattate con mano adeguata, a cui si sa piace sempre battere le mani, ma che non genera molto più di qualche rispettoso sbadiglio.

(Cristina Fanti)

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venerdì 11 febbraio 2011

Rabbit Hole

Nicole Kidman era scomparsa per un po’, da vera diva torna alla ribalta a bordo di una nave di cui è lei timone, scafo, albero maestro e soprattutto polena. Un film costruito per far brillare lei, la sua bravura e le sue ritrovate rughe.

Questo è Rabbit Hole.

Basato sull’omonima piece teatrale di David Lindsay-Abaire, racconta il lutto di una coppia che piange la morte del proprio figlio di quattro anni avvenuta pochi mesi prima per un incidente stradale. Ah però, lo so. La Kidman reagisce chiudendosi in una vita di forzata solitudine, sciatta e struccata, alla Virginia Woolf meno il naso, cerca di eliminare ogni ricordo del figlio sopprimendo le emozioni fino a far sembrare a chi le sta intorno che non ne abbia. Il suo degno marito, Aaron Eckart, si tuffa invece nel lavoro e gioca a squash con gli amici, continua a guardare vecchi video di suo figlio imbevendo magistralmente la sua sospettosa positività con una profonda filigrana di tristezza. Due strade parallele che si osservano da lontano.

Un carrozzone assemblato per trainare la Kidman sul tappeto rosso del Kodak Theatre, e che si è mosso bene. La vetrina in cui è stata inserita è perfettamente trasparente e immacolata. Ma ciò che c’è intorno al contrario della sua protagonista è stato praticamente ignorato. Con un DNA teatrale molto vivo, nel senso purtroppo peggiore del termine, consiste principalmente di dialoghi, lenti, lentissimi - ma di devastante profondità, una prova d’attore difficile (e superata a pieni voti dalla coppia), ma che forse si ferma a un mero esercizio di forma, poco prono a ricevere grandi consensi.

La sceneggiatura evita un diretto confronto con il dramma, per lo meno in senso convenzionale, e si focalizza piuttosto sull’imprevedibile, erratico fluttuare delle emozioni. I personaggi sono modellati come vasi vuoti che d’improvviso esplodono in un’onda repentina che fa risacca fra calma e tempesta. Si esplorano i classici percorsi di recupero, ma in maniera critica. Invece che fornire facili risposte il film si domanda come si possa andare avanti rifiutando i soliti cliché moralisti.

C’è dell’umorismo nascosto nel cinismo che la Kidman mostra con la sua insofferenza verso le banali consolazioni ecclesiastiche e l’ipocrisia del gruppo di auto-aiuto che la coppia frequenta, o con le paternali fatte a sua madre, che ha perso un figlio adulto per droga, per aver paragonato i loro rispettivi dolori. Usata sia per commuovere che per rilassare il pubblico, la risata sa essere curativa e amara. Questi piccoli particolari donano al film una sincerità di solito estranea a tematiche così drammatiche.
Il regista John Cameron Mitchell opta per un filo di leggerezza e con essa cuce il racconto con un afflato al contempo poco familiare e confortante. Aiutato da una fotografia intimista, crea una perfetta piattaforma organica perché gli attori dimostrino la loro bravura.

L’ambiguità di questo film, la sua resistenza nell’impegnarsi sia in un triste pessimismo che in una felice risoluzione rende Rabbit Hole un prodotto interessante, ma ostico per un pubblico più propenso ad aprirsi a racconti di epiche vittorie o di drammi su scala più semplicisticamente perversa o horror.

Meravigliosa la locandina americana, che racchiude in una potente immagine tutto il senso della difficoltà di fondersi in un unico per superare la tragedia. Una frase senza la quale non riesco a vivere come sottotitolo: “l’unico modo per uscire è passare attraverso”.

(Cristina Fanti)

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martedì 11 gennaio 2011

Kill me please

Bianco e nero nella forma, molto nero nei contenuti. Kill me please è una farsa scura e politicamente scorretta che prende le mosse in una clinica per la “buona morte” in cui si aiutano i pazienti a dipartire da questo nostro mondo infame. Ha i suoi momenti, ma soffre di un certo avaro desiderio di essere irritabile, compassionevole e provocatorio presupponendo di continuare a far sbellicare ininterrottamente dalle risate. Una certa freschezza e originalità ci sono, nel suo modo sardonico di trattare un taboo, e questo aiuta a reggere il pubblico tra gli infiniti cambiamenti di tono e cul de sac drammatici. Purtroppo a conti fatti è un film frustrante, mai così intenso, dissacrante o semplicemente divertente come vorrebbe essere.

I picchi di comicità sono soprattutto negli scambi verbali e nei guizzi fisici dei protagonisti, piuttosto che in scene realmente studiate per far ridere nella loro complessità. Qualche coup de theatre ben piazzato aiuta a ritirare su l’attenzione dopo alcuni piccoli cali di voltaggio.

Lo stile di ripresa vagamente documentario, camera a mano e fotografia austera, resta tutto sommato inspiegato. La macchina da presa è invadente ma non si rivela mai come giocatore attivo; sembra che i personaggi da un momento all’altro si rivolgano alla troupe ma in realtà non lo fanno mai, lasciandoci così timidamente in bilico fra soggettività grottesche e fissità impersonali.

Confidando su questo formato semi documentaristico Barco non ha la necessità di puntellare troppo la storia, e così il gran finale arriva sospinto da fragili ali drammatiche. Similmente, nonostante degli sprazzi in cui gli incastri funzionano, alla pellicola nel suo complesso sembra mancare coerenza. A dispetto della dichiarata indole farsesca e laconica la vicenda pare faticosamente cercare un messaggio complesso, senza però che si capisca quale. Forse che anche le strategie di fuga (dalla vita, in questo caso) più meticolosamente programmate hanno la strana abitudine di andare a finire nel verso sbagliato? Il semplice fatto che ce lo chiediamo fa meditare sulla riuscita dell’opera, che pure non ha scoraggiato la giuria del Festival del cinema di Roma dal conferirgli il premio più ambito.

Il perno della vicenda, il direttore della clinica, dott. Kruger, sembra minaccioso e sfuggente quando ci viene presentato, facendoci sperare che loschi affari emergeranno per il nostro sollazzo dai lettini della struttura. Man mano che la storia procede però queste sue qualità sono impastate in maniera sempre meno saporita, fino a volerci far credere che il motivo per cui si sia dato tanta pena nel mettere in piedi una tale struttura, con tanto di faida con il vicino villaggio con il quale intrattiene sparatorie alla Robocop, sia semplicemente perché convinto sostenitore del diritto umano di scegliere il modo, il tempo e il luogo di morire e niente più. Terribilmente blando, le nostre papille gustative battono in ritirata, sconfitte. Un personaggio sprecato.

Nel caso dei suoi pazienti invece accade il contrario; tutti sono soffritti lentamente e aggiungendo via via manciate di pepe. Cercare di scoprire fin quanto ognuno di essi sia effettivamente fuori di testa sembra il vero scopo della visione del film. Forse non quello per cui siamo venuti, ma pur sempre gustoso.

(Cristina Fanti)

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lunedì 3 gennaio 2011

Hereafter

Il film si apre in una camera da letto, poi una spiaggia e una tipica trappola per turisti, una stradina popolata da bambine sorridenti e bancarelle mangia dollari in un villaggio della, diciamo, Tailandia. Bam, il mare si gonfia, un’onda che potrebbe contenere un sottomarino rotola verso la spiaggia. Vorrei scappare tanto sembra vera. Ottimo, un grande film d’azione. Dieci minuti al cardiopalma mentre una dei nostri protagonisti è investita in pieno dallo tsunami, un’automobile spinta dalla marea le sfonda il cranio, diventa blu, ha una visione e infine torna a respirare. Accidenti, questa roba piace. La tensione è interrotta spostandoci a San Francisco. Scopro che nel cast c’è Matt Damon, e anche che non si tratta di un film d’azione, ma di un duro viaggio all’interno di forti individualità centrato intorno ad uno dei maggiori misteri della vita: la morte. Clint Eastwood ci ha gabbato.

160 lustri, una pellicola all’anno da quando gli orologi hanno segnato i suoi 65, uno stile di regia sobrio e curato, diverso dal mainstream hollywoodiano. “Mi piace abbracciare quelle storie che ci fanno conoscere i personaggi nel dettaglio piuttosto che incoraggiare il breve spettro di attenzione della moderna generazione”. In traduzione eastwoodiana, quello che tutti abbiamo pensato uscendo dalla sala: “questo film è lento”.

Hereafter parla di morte, e lo fa offrendo diverse prospettive in materia: l’esperienza sovrannaturale della giornalista francese vittima dello tsunami, che dopo la sua visione di un deserto abitato da sagome di luce ha difficoltà a concentrarsi nel lavoro; Matt Damon, un sensitivo che connette le persone con i loro cari defunti, quelle stesse sagome di luce di quello stesso deserto, traumatizzato dal suo dono, che vede più come una condanna; il lutto di un bambino che perde suo fratello gemello, al quale è legato da un filo fin troppo doppio al fine di fronteggiare una madre eroinomane e senza un briciolo di dignità.

Si spazia tra toni opposti, dal caos iniziale a quiete e ombra dell’appartamento in cui Damon fornisce riluttante i suoi servizi. Ciò prova che mirabolanti effetti speciali possono essere accoppiati a un grande dramma e non sempre devono contare sulla presenza di alieni in 3D o robot in computer grafica per essere apprezzati dal pubblico. Grande l’elasticità del regista che riesce a seguire senza deragliare il delicato tracciato della sua storia, non forzando mai il suo punto di vista. Il film non si allinea, non fornisce particolari messaggi, narra e lascia allo spettatore le somme da tirare. Conquisterà alcuni e annoierà altri, ma la promessa di cura e passione non è mai tradita.

La narrazione è seguita con grazia, bilanciando l’intreccio fra l’ossessione della morte e il suo più diretto risultato, il lutto, e quello che significa vivere, e andare avanti. Tutti i protagonisti scopriranno che non esiste una facile risposta ma ciò non vuol dire che non ci sia speranza di trovare conforto.

Purtroppo il messaggio non è chiaro allo sceneggiatore che nel finale vira egli stesso proprio su quella strada più facile, contando, forse troppo, su un senso di provvidenza non presente nel resto del film. Forte la necessità di far quadrare i conti, anche se nel resto della storia ci ha mostrato a più riprese che la vita, così come la morte, è un’esperienza imprevedibile.

Eastwood e i suoi attori trattano la sceneggiatura con una mano gentile e rispettosa. Nessuno esagera mai in termini di emozioni, giusta intuizione per un racconto molto intricato, facile da far rotolare lungo il declivio del melodramma se le performance avessero spinto troppo sul patetico.

L’inevitabile struttura dei film con storie multiple porta con sé una problematica: è prevedibile. Sappiamo esattamente cosa succederà. Forse non sappiamo come, ma sappiamo che succederà. Le vite dei protagonisti alla fine s’intersecano in qualche modo, e tutta la buona recitazione, la raffinata regia e i dialoghi pesati del mondo, non eviteranno che gli spettatori riescano a fare due più due. Molta magia viene sottratta al percorso che questi compiono insieme ai personaggi se possono facilmente seguirne la traccia da bendati. Non aiuta il fatto che la pellicola sia lunga una mezz’oretta di troppo nel centro, utile solo ad inspessire le fondamenta del gran finale ma senza aggiungere nulla in termini di energia, e resa guardabile più che altro dalla performance meravigliosamente in sordina di Damon.

Come film di domande sulla vita e la morte funziona, come film su un uomo reso miserabile dalle sue abilità funziona, ma appena si capisce come tutti i nodi verranno al pettine, l’incanto muore come travolto da un’onda anomala.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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mercoledì 22 dicembre 2010

Un altro mondo

Cronistoria del film di Natale.
Anni 80: Una poltrona per due.
Anni 90: Schwarzenegger fa il papà di famiglia, bambini cercano tesori e mettono trappole sentendosi grandi per un giorno, qualche batuffolo di neve e redenzione per tutti nel finale.
Anni 2000: donne nude, seni, sederi e volgarità.
Anni 2010: Silvio Muccino.

Tale pare la piega presa dal filone con questo lancio coraggioso della Universal durante la festività più amata dagli italiani. Coraggioso perché nel film non ci sono né Boldi né De Sica.
Bensì tanti sentimenti, anche se un po’ scorretti perché tutti facilmente affidati agli occhioni di Michael Rainey Jr., il bimbo protagonista, nero e orfano, praticamente un magnete di simpatie per il pubblico. Gli adulti invece, quasi tutti freddi e imbalsamati per la maggior parte del film, senza grande sforzo per gli attori chiamati a interpretarli, restituiscono una realtà un po’ troppo stilizzata. Secondo i produttori si tratta di una storia di redenzione che si fa paladina dei veri ideali da diffondere a Natale. La concorrenza di questi tempi è effettivamente abbordabile, ma in qualche modo il film, nonostante i vantaggi di cui sopra, esce sconfitto.

In conferenza stampa si parla di esistenzialismo, perché, nell’anno e mezzo in cui Silvio Muccino e Carla Vangelista (autrice del libro da cui il film è tratto) si sono impegnati a scrivere la sceneggiatura, hanno avuto abbastanza tempo per rimpinzarla di tutti i temi più vaghi e generici che attanagliano la natura umana: il razzismo, la solitudine, il rapporto con il proprio corpo, quello con gli altri, la povertà e dulcis in fundo la morte, che unisce sempre famiglie e spiriti e coagula la formula perfetta per le feste.
Chiuso il cerchio di questo “vero” film di Natale, si sente forte profumo di fiera delle banalità.

Muccino ci informa che ama i racconti di formazione ed è stato per questo attratto dal libro della Vangelista, che costringe i propri personaggi a guardarsi dentro, fare i conti con il proprio passato e diventare uomini. Peccato che ciò che vediamo nel loro profondo sia no-io-so.
La recitazione non aiuta; anche se come al solito tutti gli attori dichiarano quanto interpretare questo ruolo sia stato bellissimo, fuori dal comune, e che abbia dato loro la possibilità di mettersi alla prova, di abbattere barriere, di superare se stessi e migliorarsi nella loro arte, la piattezza ci affonda. L’unico ad emozionare qua e là è il bambino.

Le risate e i commenti in sala a scena aperta lo confermano: ad una interessante premessa del soggetto corrisponde una sceneggiatura inesistente e dei dialoghi da raccapriccio, vero motore di ilarità. Non si spiega come la scrittrice-sceneggiatrice abbia avuto la fantasia di martoriare volontariamente la sua opera narrativa. A condire, alcune scelte discutibili, come la lunghissima sezione di apertura in cui Silvio fa da narratore descrivendo ciò che i vari personaggi fanno in video. Didascalico, tautologico e ridondante. Neppure foneticamente interessante considerate le ripetute visite del nostro dal logopedista.

Ammirevole il coraggio che Muccino ha nel proporsi come autore cinematografico in un paese in cui l’arte va morendo. Uno dei pochi che ancora scrive, dirige e recita. I risultati fanno però presupporre che il ragazzo sia quantomeno acerbo, e che forse prima di lanciarsi a capofitto in opere bibliche sarebbe meglio si dedicasse ad uno solo dei settori di suo interesse, per approfondirne i meccanismi. Un Tarantino c’è già stato, e non è nato in Italia.

(Cristina Fanti)

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mercoledì 8 dicembre 2010

Le cose che restano

La fiction televisiva, concetto interessante. Raccontare lentamente in sei ore, ovvero quattro puntate, quello che si potrebbe raccontare con un po' di ritmo in una volta sola. Non è un'idea che mi fa impazzire; al contrario sono molto parziale alla parola Santamaria. Perciò partecipo alla maratona di questo che vuole essere un film epico, una sorta di romanzo storico, un Ivanhoe de noantri, prosecuzione ideale di quei La vita che verrà e La meglio gioventù che hanno tracciato negli anni passati i modi in cui l’Italia ha reagito a quattro decenni di menate politiche e compagnia cantando.

Questa volta arriviamo al presente, capolinea della trilogia. La scintilla è una casa, culla di una famiglia calda e fracassona. Borghese e luminosa, a seguito della tragica morte del figlio più piccolo, così come la madre reagisce al lutto scappando in una clinica, così la casa si svuota e rimane al buio. I tre fratelli sopravvissuti cercano di trovare ognuno la propria strada attraverso conflitti e rapporti che permetteranno loro di ripopolarla stanza per stanza, restituendole le sue funzioni vitali e trasformandola nel simbolo della possibilità di creare nuove forme di famiglia, non più legate al sangue ma al bisogno di un’identità esistenziale talvolta ancor più profonda.

Per lanciare questo messaggio di positività, restare nella quotidianità degli eventi e fare nel contempo un quadro generale della situazione italiana di questo preciso momento storico si scomodano talmente tanti argomenti che il risultato è un calderone di tematiche grosso e confuso. Fornisco un conciso sommario.

C’è una psicologa, con tutte le pesanti implicazioni di questo mestiere. Soprattutto essa tratta il caso di un militare che a seguito di un incidente ha perso la memoria, si parla di guerra. C’è un laureato in architettura che però va a lavorare in cantiere, ed ecco il precariato. C’è un funzionario ministeriale che si occupa di controllo dell’immigrazione e ci porta con lui ad uno sbarco in Sicilia. C’è un omosessuale che s’innamora di un uomo che ha una figlia, si affrontano le coppie gay e la paternità. C’è la madre di questa figlia che è una tossica senza fissa dimora, su un piatto d’argento droga e vagabondaggio. C’è un malato terminale. C’è un locale di spogliarelliste che nasconde un giro di prostituzione e di sfruttamento di straniere, una delle quali è brutalmente uccisa, guidandoci alla riflessione su una salma non identificabile che “tornerà al suo paese senza un nome e senza amici”. Ci sono un paio d’immigrate che cercano di ottenere un visto, un ulteriore pizzico d’integrazione culturale. C’è un aborto, tradimenti e divorzi, per parlare della vita e del valore della famiglia. C’è un architetto che indaga sugli abusi avvenuti in un orfanotrofio che sta cercando di restaurare, ombre di violenza; lo stesso architetto con il progetto dell’orfanotrofio cerca di vincere un concorso, per voi l’amministrazione pubblica. C’è una madre che impazzisce dopo la perdita del figlio, si medita sulle malattie mentali. Naturalmente poi c’è la morte di un diciassettenne, con tutte le conseguenze del lutto, e cioè la fiction stessa.
A coronare questo polpettone (nel senso di una pietanza fatta di tanti ingredienti, per carità), senza alcun motivo, durante una panoramica di un parcheggio, indugiamo per qualche lungo secondo su un pulmino dal quale scende un gruppetto di ragazzi down. Meno male, adesso non manca proprio niente.

L’impressione è che in Italia non si riesca a mantenersi su un nucleo narrativo solido, piuttosto quando si opta per progetti importanti come questo si sente sempre il bisogno di allargare lo spettro dell’indagine alla società tutta. E così ogni volta si producono film che durano mezza giornata e che per ovvi motivi hanno come unico sbocco possibile la televisione. Nonostante una disponibilità di tempo tanto generosa alcune situazioni sono ugualmente poco approfondite e nebulose. Il rapporto romantico fra un’immigrata e il poliziotto incaricato di sorvegliarla, su tutte, è superficiale, banale e assolutamente non declinato.

Considerato ciò la storia resta comunque scritta bene, uno o due personaggi sono molto intriganti e i dialoghi in alcune scene davvero sopra la media. Insomma non stiamo parlando di una soap con Gabriel Garko. Sicuramente e genuinamente un altro livello.
La musica è curata con zelo, bella la scelta di utilizzare tanta classica; alcune svolte registiche palesemente cinematografiche non passano inosservate; pulita la fotografia che ricerca riflessi arditi in scene come quella in cui il volto di un uomo si riflette  negli occhi della donna che ama, ed appare e scompare ad ogni battito di ciglia.

Le linee narrative migliori e i momenti più toccanti sono riservati all’amore, delicati e sentimentali al punto giusto, a onor del vero ben fatti, tra le coppie Balducci-Liskova e Santamaria-Neuvic. Proprio Neuvic e Fantastichini regalano performance da brividi.

Quest’ultimo dichiara di avere una visione rosselliniana della TV che dovrebbe educare le masse, aumentare la qualità della loro coscienza civile, insegnare a combattere l’intolleranza, a promuovere l’integrazione e l’armonia; proprio quello che ottiene a suo parere Le cose che restano. Non condivido, credo invece che questo prodotto rischi troppe volte di ottenere l’effetto contrario, di essere noioso e di scoraggiare in ultimis lo spettatore. In tutta onestà se non fossi stata invitata a vederlo senza soluzione di continuità in una sala cinematografica, e non avessi accettato causa casting furbetto di Santamaria, i troppi elementi di piattezza dell’intreccio, la mancanza di colpi di scena, la poca affezione sviluppata con la vicenda e soprattutto la vocazione troppo generalista della serie non mi avrebbero affatto invogliato a collegarmi di settimana in settimana per gli episodi successivi.

Le cose che restano andrà in onda in prima serata su Rai Uno dal 13 Dicembre. Ve lo consiglio, come blando sonnifero.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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martedì 16 novembre 2010

Io sono con te

Qualsiasi film che prometta di raccontare Maria di Nazareth senza affrontare temi religiosi scatenerà la mia curiosità. Questo è stato per Io sono con te. Con curiosità appunto mi sono approcciata alla sala e ne sono uscita alla fine della proiezione dopo un quarto d’ora di applausi.

Un regista che viene dal documentario, e si vede. Attori presi dalla strada, anzi fuoristrada, nella campagna Tunisina. Al Festival del Cinema di Roma l’abbiamo visto in dialetto Arabo, immagino che al cinema verrà doppiato. Ormai è classicamente noto come il tocco alla Mel Gibson, ed effettivamente continua a funzionare. Certo è che una produzione americana a volte si lascia impossessare da questi folkloristici lussi idiomatici, una italiana mi permetto di dubitarne.

L’assioma di Guido Chiesa è che un bambino, per quanto parzialmente divino, acquista personalità e strumenti relazionali attraverso i propri modelli genitoriali. E d’altra parte Dio non avrebbe affidato a due umani qualsiasi la cura della sua controparte mortale. Di conseguenza appare chiaro che, in un contesto religioso che identifica nella donna il principio della salvezza, l’uomo straordinario che la Bibbia descrive, a prescindere che ci crediate o meno, debba aver avuto una madre fuori dal comune.

La storia della ragazza che ha cambiato il mondo, cita il sottotitolo, e questo è. Seguiamo Maria dalla concezione alla disputa di Gesù con i dottori nel Tempio. Nel mezzo Erode è alla ricerca della progenie dei cieli, e testa tutti i bambini di Betlemme con quiz di logica e domande a trabocchetto molto poco divine. La nostra protagonista affronta le piccoli grandi sfide dell’essere donna in una società primitiva e maschilista, instaurando un forte equilibrato dialogo con il marito, educando il proprio figlio alla libertà, mettendo in discussione i capi saldi dell’Ebraismo per seguire il suo istinto. Il suo istinto, non un’altra religione. Non soffia un alito di Cristianesimo in questa pellicola, per lo meno per chi non ce lo voglia trovare.

Chiesa è molto crudo nei dettagli che sceglie di mostrare, la regia è asciutta ma efficace. Il tempo scorre senza annoiare e questo ai giorni d’oggi lo considero già un grande traguardo.

Le ricerche condotte sul materiale riportano in parte ai Vangeli e in parte a idee originali frutto d’invenzione; soprattutto per quanto riguarda gli ambienti si opta per un mondo policromatico in contrasto con la tradizione cinematografica del genere. I costumi di Valentina Taviani sono sopra ogni cosa uno splendido regalo per gli occhi. Permeano la nostra visione con un girotondo di colori che evidenzia le personalità dei protagonisti in maniera sottile e mai scontata. Curatissimi nella scelta delle stoffe e più in generale semplicemente belli.

Naturalmente il fascino di un’opera del genere risiede anche nelle riflessioni che genera. Per quanto mi sembra di aver reso abbastanza chiaro che ho molto gradito questo lavoro, sia per la realizzazione che per le idee interessanti, c’è chi non è d’accordo con me. Cito dal sito mirabilissimo100.wordpress.com:

Guido Chiesa non conosce le Sacre Scritture, la storia e la religione del popolo ebraico, quindi il suo racconto non solo è falso ma anche blasfemo e contro la Sacra Famiglia. 
Falsificare i Vangeli è un gravissimo peccato, mentre i vangeli inventati da uomini atei non servono a nulla, anzi portano all’inferno, il Vangelo, la Parola di Dio, la Sacra Bibbia sono la Via, la Verità, la Vita eterna e la Salvezza.
Chi racconta falsità verrà condannato; “Vi assicuro che nel giorno del giudizio tutti dovranno render conto di ogni parola inutile che hanno detto perché saranno le vostre parole che vi porteranno a essere condannati o a essere riconosciuti innocenti”, Vangelo secondo Matteo: 12, 36-37.

Attenderò dunque, insieme a Guido Chiesa e alla troupe del film, il nostro Armageddon.

(Cristina Fanti)

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giovedì 11 novembre 2010

The Social Network

Uso facebook dal 2006 con una convinzione che possiamo definire religiosa. Almeno fino ad oggi. In effetti in questo momento non mi trovo più molto a mio agio tra le sue interfacce. Mark Zuckerberg non esce dipinto al meglio da The Social Network, e con lui è diventato un tantino inquietante tutto ciò che lo circonda.

Un film dal classico stampo americano. Narrazione convenzionale, humor asciutto, belle ragazze e Justin Timberlake.
Ma parliamo di David Fincher, per cui la narrazione è spezzata e poi ricucita da salti temporali che la rendono ritmata ma fluida, e interessante. Lo humour ti colpisce quando meno te lo aspetti senza essere mai ovvio, in agguato ad ogni angolo, soprattutto alle svolte più amare. Le belle ragazze sono cazzute nel New England e puttane in California. Justin Timberlake firma una performance inaspettata.

La storia è nota, è recente, e la sanno tutti, come chi ha vinto l’ultimo campionato. Il ragazzo in preda ad una sbronza, appena lasciato dalla fidanzata, si lancia per ripicca nel mondo che conosce meglio, quello informatico, e crea un sito insignificante e maschilista sul quale si possono votare le foto delle ragazze del suo campus. Questo sito nel giro di pochi giorni diventerà quello che conosciamo, dopo che il suo creatore avrà rubato l’idea di base per allargarne la portata da alcuni ragazzi della sua scuola. Perché diciamocelo, lo ha fatto. Ed è per questo che i ragazzi di cui sopra, i gemelli Winklevoss, hanno vinto la causa che gli hanno intentato per frode. “Se foste i veri creatori di facebook avreste inventato facebook” tuona sarcastico e rilassato Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg) dalla comoda poltrona di uno studio legale. Ed è proprio questo il lato intrigante della vicenda. Che non ce n’è una, ce ne sono tre.

Aaron Sorkin, sceneggiatore straordinario (consegna la sua prima stesura della lunghezza di 165 pagine, eccezionalmente approvata subito per le riprese) e David Fincher hanno riconosciuto l’universalità, sia territoriale che temporale, dei temi da loro trattati, così per differenziarla da un classico dramma, diciamo Shakespeariano hanno puntato tutto sul concetto che la verità non è univoca. Hanno per così dire attinto dalla tavolozza a 256 colori invece che dalla cartella in scala di grigi. “Piuttosto che decidere quale fosse vero e quale no, ho pensato che la cosa migliore fosse drammatizzare tutti i conflitti narrativi” dice Sorkin, “inoltre l’idea di una serie di realtà possibili sembrava molto più in linea con facebook stesso, e cioè con le molteplici possibilità di mostrare un concetto molto personale di verità”. Inseguire la giustizia non è importante per questo progetto, bensì lo è la ricerca del dettaglio, sia attoriale che scenografico, per ricreare gli eventi ed assemblare i fatti come scopo ultimo del film.

La maggior parte delle pellicole biografiche segue uno svolgimento lineare, in questo caso invece parlavamo di storia frammentata. Un lungo flashback che parte dal presente delle due battaglie legali che vedono Mark come protagonista. Un uno contro tutti in cui la parola di ognuno è buona come il pane e un reperto e-mail vale come l’oro. Un processo meno incentrato nello stabilire le colpe e più sul determinare il preciso grado di carognaggine di Zuckerberg. Quale esso sia poi resta soggettivo, perché alla fine il giovane milionario non ne esce né diffamato come avido e stupido, pronto a sacrificare quei pochi amici che ha per arrivare al successo (che poi più che di denaro il suo è desiderio di rivalsa sociale), né esaltato come mito dell’anticonformismo. Gli autori proseguono anche in questo caso sul loro percorso, ben più pericoloso, per i produttori soprattutto, cercando di evitare delineazioni nette. Mark Zuckerberg sarà molte cose per ognuno di noi, ma per il mondo nel suo complesso è sicuramente la vittima di un disagio sociale che è in grado di trasformare in un codice informatico d’avanguardia. E’ un hacker, un antieroe, un anarchico che cerca di scontrarsi con le persone che hanno reso il suo mondo infelice, che ad ogni passo che fa per essere accettato finisce per far male a qualcuno, un tagliatore di ponti professionista. In nessun momento del film lo spettatore è portato a simpatizzare per lui, non c’è nessuna scena in cui il ragazzo si butta in terra e si raggomitola tremando perché si sente tanto solo. Non sono permesse distrazioni dal soggetto, che sono i fatti, non i sentimenti.
Per quanto riguarda le reazioni di carattere più intimo, quelle poi derivano involontariamente dalle circostanze, e il nostro protagonista, forse profondamente solo, o forse no, ci saluterà in compagnia di un computer e della sua pagina facebook.

L’assioma è quello di fotografare una società avanzata e interconnessa in cui i nostri profili e i nostri blog ci definiscono di più delle azioni che facciamo in carne ed ossa, ma che resta chiusa, ingabbiata da pregiudizi vecchi di secoli su come i nostri eroi e le loro nemesi dovrebbero apparire, parlare e agire. Infatti Mark Zuckerberg è un ragazzo che ce l’ha fatta, l’eroe della nostra storia, eppure resterà irreversibilmente instabile e fuori posto.

Tanti film mostrano che il denaro dà alla testa e trattano dell’avidità come motore del mondo, ma in fondo quante persone possono identificarsi con un ricco magnate? The Social Network stravolge le carte in tavola nel presentarci esattamente un ricco magnate, ma piagato da qualcosa con cui tutti possiamo relazionarci: un costoso – in termini umani - desiderio di accettazione che si tramuta in una cieca ambizione di scalata sociale.

Eisemberg ruba la scena a tutti, persone ed oggetti compresi, lanciando sguardi intorno a tavoli come se le persone che lo circondano fossero tutte imbecilli, sparando commenti caustici che un po’ fanno sentire tali anche noi, macinando parole alla velocità della luce, muovendosi, interagendo, e persino stando fermo come se al mondo esistesse solo lui. Strepitoso. Ci ha raccontato come la scena di apertura sia stata girata 99 volte. Ciò avrebbe probabilmente condannato alla pazzia qualsiasi attore, invece lui ha continuato a lavorare alla sua performance ciak dopo ciak e questo molto onestamente si percepisce, elevandolo a qualche prestigioso premio nella prossima award season.
Il cast tutto ben si adegua a questo standard, da Andrew Garfield, il migliore amico tradito, la parte più emotiva del film, un personaggio in 3D nel senso interiore; a Timberlake, la versione con codice postale californiano di Zuckerberg, astuto imprenditore e gran pezzo di merda, che si fonde nel suo ruolo spogliandosi della vecchia immagine di menestrello per teenager con coraggio e umiltà, provando che forse l’attore può farlo davvero. Certo gli servirà qualche altro colpo ben assestato per convincercene fino in fondo, ma questo è il prezzo da pagare per chi cambia carriera.

Il successo maggiore di The Social Network sta nel catturare la febbre della nascita di facebook implicando contemporaneamente che questo ha generato molti soldi e un effimero clamore ma non molto di più. Piena di rivalità, invidia e di orgogliosi mezzi geni questa storia ci rivela, alla fine, cosa? Molta solitudine. Sorkin e Fincher hanno ben amalgamato eccitazione e scalpore con un persistente, scuro pessimismo, in un film di persone che digitano davanti a computer e parlano dentro stanze, ma pieno di suspance come se fosse un vero e proprio thriller.

(Cristina Fanti)

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mercoledì 10 novembre 2010

I want to be a Soldier

Strano ma vero, nella loro categoria Valeria Marini è un’attrice migliore di Monica Bellucci. Lo so, neanche io lo credevo possibile, ma è così. Vi chiedo uno sforzo, me ne rendo conto, ma se riguardaste Matrix Reloaded, e lo comparaste ad I want to be a Soldier, in versione originale, capirete di che parlo.
Valeria Marini non sospira, parla. Valeria Marini non ha grande mobilità facciale per via di Mr. Botulino e della sua allegra famiglia, ma vi è un accenno di espressione. Valeria Marini ha un forte accento italiano, ma almeno parla qualcosa di simile all’inglese. Mi ha colpito, non posso dire altrimenti.

Non solo per averla schierata fra gli interpreti (sorvoliamo sul fatto che ne sia produttrice) il film è coraggioso.

Una storia delicata, di violenza, a tratti anche d’odio, di dipendenza, d’invisibilità. Parliamo di un bambino, un bel bambino, Alex. Delicato, mansueto, sognatore e studioso, che complice un edulcorato Sergente Hartman (parto della sua fantasia e “merito” di un’incombente televisione, simbolo della mala-educazione) si trasforma nel mignon di un naziskin.
Le immagini di guerra e di torture che la TV trasmette senza limiti scorrono sui suoi primi piani, proiettategli addosso e riflesse in tutta la sua stanza, dove si chiude a chiave, consapevole della sua disobbedienza. Graffiano quelle pareti di gomma che bendano gli occhi dei suoi genitori.
Il tracollo è immediato, e l’impotenza delle istituzioni, tutte, è denunciata senza mezzi termini, fino a costringermi ad ancorarmi alla sedia del cinema per non scattare fin dentro allo schermo e urlare contro questa madre distratta, questo padre naive e questa scuola impotente, prendere un bastone e colpire quel trasmettitore di fango e infamità fino a farlo esplodere con dovizia di scintille.

La regia non solo è molto curata, ma davvero raffinata, nei piani sequenza che ci costringono inermi di fronte alla cruda realtà e negli articolati balletti di macchina e attori, dialoghi che si accavallano su più piani scenografici, colori, angolazioni e luci interessantemente espressive.

Sottile e acuta, ma soprattutto molto funzionale, la figura dell’amico immaginario del nostro piccolo Hitler. Quando lo conosciamo è un astronauta, candido consigliere che lo aiuta con i compiti, a cena lo persuade dell’importanza di mangiare verdure per diventare grandi uomini, d’età, di statura e di mente, e gli racconta le meraviglie del cosmo, giocherellando con una leggera pochette da taschino bianca. Con il crescere della morbosa fascinazione per la guerra nella mente di Alex, e nella sua stanza con un repentino cambio di arredamento sostenuto da suo padre ma disapprovato dalla madre, l’immaginario stesso del film evolve e il candido astronauta, indossata una divisa militare con un tappeto di medaglie al merito e fumando sigari a tutto spiano, strepita a pochi centimetri dal suo orecchio elogiando impietosità, vendetta, disobbedienza, e sventolando vittorioso un piccolo fazzoletto rosso. Signore, si Signore.

Alex si rade i capelli e parla dell’odore di Napalm al mattino. Fergus Riordan ci regala una performance adulta, e non sono da meno gli altri interpreti.

Il lavoro di martellamento psicologico è chirurgico e indolore, così a un tratto mi trovo a provare antipatia per questo bambino che tenta persino di affogare quel fratello minore che gli ha tolto l’attenzione di mamma e papà; e disprezzo per questi ultimi, che nonostante i ripetuti appelli dello psicologo che segue Alex non riescono a vedere oltre le loro dispute matrimoniali. Non so se il regista volesse questo da me.

Ciò che ho sentito negli 88 minuti in cui la pellicola ha camminato mi ha portato però a riflettere su cosa voglia dire mettere al mondo un’anima ai tempi d’oggi. Questo sono sicura invece che lo volesse.

Vincitore del premio Alice nella città Under 12 al Festival del Film di Roma 2010, non è certamente solo un film per bambini.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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sabato 6 novembre 2010

Last Night

L’attrice che meno stimo al mondo, 90 minuti, una prospettiva terrificante. Le luci si spengono. Ma non è così male. Almeno il digrignamento dei denti non è vistoso come al solito.

Last Night, un film in cui Keira Knightley non indossa un corsetto e Sam Worthington non ha la pelle blu. Eva Mendez… Beh lei fa quello che le riesce meglio.

Una coppia di giovani sposata da quattro anni, i primi due, è minacciata dall’ingresso in scena di un sederotto prosperoso, quello della cubana. Joanna (Knighley) comincia a sospettare dell’infedeltà di Michael (Worthington) durante una cena di lavoro, quello di lui. Perché lei fa la scrittrice, ed è un tantino persa in questo mondo dove l’arte non si mangia. L’indomani Michael parte per un convegno insieme ad alcuni colleghi, inclusa Laura (Mendez), la pietra dello scandalo.

Da questo momento in poi la regista, sceneggiatrice di The Jacket, per cui ha la mia stima, e amica della Knightley, per cui la perde, segue le vicende che si dispiegano nel corso di una lunga notte a Philadelphia, dove si trova Michael, e a New York, dove è rimasta Joanna.

Quest’ultima durante un blocco creativo nella mattinata dello stesso giorno era scesa a prendere un caffè e aveva incontrato per caso un suo vecchio amante. Lui, prestante e francese (Guillaume Canet), non tanto per caso l’aveva pedinata perché, in città per sole altre 24 ore, sentiva il bisogno di rivederla. Sembrerebbe che il sentimento sia ricambiato, perché i due si danno appuntamento per un disagevole aperitivo che si trasformerà in molto altro.

Il tema in cui questo film si diverte a girare il coltello è quanto mai banale ma sempreverde. Lo slogan stampato sulla locandina recita: a volte quello che desideri è tutto quello che non puoi avere. Dalla conferenza stampa è emerso che una frase più consona sarebbe: è meglio tradire con il corpo o con la mente?
Non sono d’accordo che i personaggi desiderino ciò che non possono avere. Hanno al contrario una concreta possibilità di avere esattamente quello che vogliono, esplorano a fondo questa possibilità, vi ci sguazzano anche, e alla fine decidono con cognizione di causa. Cosa decidono lo lascio scoprire a voi, ammesso che dopo un’ora e trenta di dialoghi ancora vi interessi.

Non sono scritti male, anzi, al contrario, per essere un film così statico tiene sufficientemente aperto l’occhietto dello spettatore assonnato, ma sono tante parole. Tante, tante parole. Molti primi piani. E tante parole. Il maggior traguardo a cui questo meccanismo porta è l’ottenere una sorta di suspance, una corda tesa fra le due coppie che sono sempre sul punto di fare qualcosa, sul punto di scattare a molla, sul punto di sferrare il colpo fatale al cuore dell’altro, non con un pugnale, ma con un’arma che ferisce anche di più. Un thriller romantico, un Hitchock in salsa Bullock.

La riflessione che ne deriva offre spunti interessanti, le atmosfere newyorkesi sono molto godibili, gli attori credibili, ma una storia, un po’ come in un saggio invece che in un’opera narrativa, stringendo stringendo, non c’è.

(Cristina Fanti)

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