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lunedì 2 maggio 2011

Come l'acqua per gli elefanti - Water for elephants

Capita a volte di discutere con chi non mangia pane e cinema su cosa faccia di un film un bel film. C’è chi crede che la chiave di volta sia la storia e non si accorge com’è appunto scopo del filmmaker dell’importanza della tecnica, che senza farsi notare costruisce e arricchisce l’opera al di fuori e al di sopra di ciò che essa racconta. Spesso in tali situazioni è difficile sostenere questa teoria senza esempi chiari e tangibili e a ciò Come l’acqua per gli elefanti ci viene incontro.

Una reinterpretazione del Titanic di James Cameron ambientata in un circo itinerante invece che su un transatlantico, e sviluppato a parti inverse. E’ infatti l’anziano Jacob ad essere presentato in apertura e a raccontare ad un giovane fintamente interessato le sue avventure amorose del 1931. Attraverso un lungo flashback scopriamo che Jacob è stato costretto dalla morte dei suoi genitori benestanti a vagare ramingo sui binari del treno e, saltando su un vagone a caso, è finito con il diventare il veterinario del famigerato circo dei fratelli Benzini. Si è innamorato poi della moglie del crudele direttore, che naturalmente, scoperto l’inganno, ha preteso la sua testa su un piatto d’argento. Salvo che, indovinate, l’amore ha trionfato, e dopo aver salvato la sua amata su una metaforica porta galleggiate, Jacob ha condotto una vita piena di gioie e di bellissimi ricordi.

Ma veniamo alle differenze. Per quanto entrambe le pellicole appartengano a un genere dichiaratamente sdolcinato e non gradito dai palati di tutti, non si può negare che la stesura e la realizzazione del colossal del 1997 sia stata curata nei minimi dettagli e giunga dunque, senza che questi ne individuino necessariamente i meccanismi, al cuore degli spettatori.

Tredici anni dopo non si usa la stessa attenzione, e benché la storia del romanzo da cui il film è tratto abbia avuto successo fra milioni di lettori, la sua trasposizione cinematografica è piatta come l’encefalogramma di un elefante. I personaggi hanno lo spessore di un post-it, e così di conseguenza la loro storia d’amore, che sboccia senza preavviso come una verruca. Un uomo e una donna che si conoscono appena e che all’improvviso si dicono “ti amo”, questo il sunto. Chiaramente si è puntato tutto sulle ricche atmosfere circensi, dimenticandosi che per un piatto ben riuscito bisogna dosare in maniera intelligente tutti gli ingredienti. Se ciò non avviene, anche se chi degusta non sa definire il perché, non gradisce il sapore di ciò che gli si serve.

L’unico lampo di recitazione brilla negli occhi di Christoph Waltz, che forse dovrebbe meditare di licenziare il suo agente. L’attore prova a lanciare piccoli ami di onore e compassione nel complesso del suo personaggio, ma il film è scritto con tale banalità nell’approccio alla dicotomia bene-male che tutti i suoi sforzi sono vanificati in un grosso cliché. August, il viscido direttore che maltratta animali e uomini, è ingoiato in un tunnel che lo costringe ad essere nulla più di questo. Il suo tentativo di scrollarsi di dosso il puzzo del colonnello nazista fallisce dunque, e anzi lo incasella ancora di più nello stereotipo del cattivo.

Reese Witherspoon ha una bella parrucca.

Di Robert Pattinson è meglio non parlare, non si spara sulla croce rossa.

(Cristina Fanti)
da cinema4stelle.it

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sabato 16 aprile 2011

Cappuccetto Rosso Sangue - Red Riding Hood

C'è un gioco che si chiama Lupus in tabula.
Un gruppo di amici si siede in cerchio e si assegnano con discrezione dei ruoli da interpretare: gli innocenti villici, la veggente, il pazzo, il prete. E il lupo. Tutti chiudono gli occhi e nella notte quest’ultimo colpisce uccidendo uno dei compagni. Al risveglio il villaggio inaugura un processo per cercare di scoprire dietro il volto di chi di loro si celi il mostro.

C'è un film che si chiama Cappuccetto Rosso Sangue (grazie ai nostri fantasiosi traduttori, in paesi meno nevrotici semplicemente Cappuccetto Rosso) che è l'adattamento cinematografico di tale gioco, né più né meno, con l'eccezione dell'aggiunta del personaggio della nonna, la cui unica funzione narrativa è quella di donare a Valerie (Cappuccetto appunto) una cappa color rosso (rosso sangue visto che siamo in Italia).

La differenza fra il primo e il secondo è che il gioco ti coinvolge, il film ti distrugge.

Catherine Hardwicke, di fama twilightiana, ma ben più navigata nel mondo del cinema, ha preso una svista. Sembra che stia dirigendo un prequel della famosa serie dei vampiri senza capire che il traino di questa vicenda sarebbe dovuto essere la suspance, e non una storia d'amore. Se l’ardimentosa alchimia tra mostri e cottarelle ha funzionato una volta, perché sfidare la sorte?
Un gotico triangolo amoroso fra una bella adolescente dalla famiglia tutta particolare e due giovani del suo stesso villaggio, uno ricco e misterioso, l’altro falegname e... possibilmente lupo mannaro. Suona familiare? Lo è.

Questa pellicola non prova nulla, a parte che la regista conferma di saper scegliere la giusta musica rock da abbinare alle scene d’azione.
In un paio di passaggi si accenna quasi a un montaggio da thriller, ma per il resto abbiamo tutto il tempo di studiare molto dettagliatamente che tipo di applicazione è stata utilizzata per il trucco degli occhi degli attori.
L’attesa dello smascheramento del lupo è costruita decentemente ma spezzata, masticata e risputata quando il lupo stesso appare. Decenni di sviluppi tecnologici e non usarli.
Quando finalmente arriva, la rivelazione della sua identità per lo meno stupisce, ma senza grandi risvolti di meraviglia. Non entrerà di certo nella top ten dei migliori colpi di scena hollywoodiani.
La trama è stata messa sotto terapia astringente e laddove si tenti di costruire dei sub plot si sentono volare grossi sbadigli. I corteggiatori della nostra protagonista fra le altre cose, diciamocelo, sono brutti. Le donne del cast, Virginia Madsen e Julie Christie, sono troppo occupate a non spettinarsi.

In sostanza sarebbe bello invitare la Hardwicke a revisionare il film, ma questa volta con occhi grandi, per vederci meglio.


(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

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martedì 14 dicembre 2010

Tron Legacy

Per chi non ha visto il primo film questa storia è piatta e insulsa. Per chi invece ha familiarità con il prequel, ma di blando coinvolgimento, è più che altro un insulto. Prodotto Disney che scivola facilmente in un regno di pertinenza Chicco. Un intreccio da encefalogramma piatto. Personaggi con lo spessore di una velina (il foglio di carta, ma anche la soubrette se preferite). E’ superfluo contemplare il punto di vista degli aficionados del franchise; l’amore si sa, è cieco.

Il vecchio Tron datato 1982 è stato applaudito a ragion veduta per le sue implicazioni rivoluzionarie. Creato su un computer con 2MB di memoria, che un bambino delle elementari ormai non sa neanche immaginarseli, e con un procedimento certosino. Date le difficoltà tecnologiche di dettagliare gli effetti digitali, che non conoscevano comunque ancora il modo di essere mischiati con le immagini catturate dal vivo come invece facciamo ai giorni nostri, si è deciso di utilizzare il colore nero per nascondere le imperfezioni. Si è girato così in bianco e nero, su un set completamente nero; stampate le immagini su pellicola a forte contrasto, poi stratificata con vari livelli di copie positive e negative, queste sono state colorate a mano per donare loro connotati futuristici.

Il nuovo Tron si propone di raddoppiare il primato e di replicare, a distanza di trent’anni, la fortunata introduzione di tecnologie innovative. Ripetere la storia però non è facile. Ci provano comunque, convinti, vantando di essere il primo film in 3D realizzato con lenti e sensori da 35mm. Inoltre per la prima volta un attore, Jeff Bridges, che ritorna nei panni del Kevin Flynn già interpretato nel prequel, per essere digitalmente ringiovanito recita fra i suoi colleghi indossando un casco creato con uno stampo del suo viso e dotato di 52 sensori, che catturano le sue espressioni e le trasferiscono ad un modello realizzato con un patchwork di decine di sue vecchie foto. Interessante. Ma non saprei quantificare quanto pioneristico. La parola Avatar mi gira vorticosamente in testa.

All’opposto su alcuni tasti si è scelto di non picchiare diversamente dal passato, bensì conservare la matrice originaria. Il pesante bagno di nero nato all’epoca del primo capitolo dalla necessità, è mantenuto fino allo stremo. Dopo un’ora gli occhi, già oberati dagli appannati (indipendentemente da quante volte si tenta di pulirli con l’apposito panno) occhiali 3D, fanno fatica a distinguere cose e persone.
Il regista, laureato in ingegneria meccanica e architettura, affascinato dalle linee geometriche, ha serbato inoltre l’impianto visivo squadrato di stampo anni 80, sia come omaggio al suo predecessore, sia perché intrigato dalla possibilità di integrare diverse tipologie di oggetti di design, come ad esempio sedie barocche e neon nella casa digitale di Flynn. Il tutto in un misurato equilibrio, fortemente voluto, fra quegli elementi d’arredo in cui si può inciampare e un meno ingombrante blue screen.

Il 3D, utilizzato soprattutto all’interno del mondo digitale, a cui fanno da reggilibro un incipit e un epilogo in due dimensioni che si svolgono nel mondo reale, non è invadente ed è integrato in maniera quasi impercettibile, eccezion fatta naturalmente per i fastidiosi occhiali. Nei rocamboleschi combattimenti non ci sono dischi, armi di fiducia del protagonista e relativi nemici, lanciati contro il pubblico, né moto luminose che durante gli inseguimenti saltano fuori dallo schermo per farci nascondere dietro al nostro vicino. Kosinski ha usato la tecnologia più blasonata del momento in maniera intelligente, per arricchire l’esperienza visiva e non per essere l’esperienza visiva.

Il lavoro creativo è stato elaborato. Sono stati chiamati a collaborare per il design dei veicoli gli ingegneri delle più grandi case automobilistiche; i costumi, realizzati in gomma con inserti di lampade elettroluminescenti, anche in questo caso per privilegiare il realismo alla computer grafica, hanno necessitato di ricerche e sarti all’avanguardia; perfino alcuni scienziati sono stati disturbati per accertarsi che la storia narrata fosse conforme alle maggiori leggi scientifiche. Mi lascia basita dunque che da un impegno così importante sia risultato un prodotto tanto banale, per non dire terribile.
Si dice che al centro dei ragionamenti ci sia stata l’intenzione di rendere al meglio il peso del rapporto tra padre e figlio, ma sinceramente, dalle tre battute in cui questo tema viene sfiorato, non mi è sembrato che gli sceneggiatori abbiano avuto delle brillanti relazioni genitoriali cui ispirarsi.

Per tutti i film brutti della storia, nel trovare qualcosa da salvare, capita di fare i complimenti alla musica. In questo caso sono veri. Gestita interamente dai Daft Punk e vera protagonista, dal momento che il materiale narrativo è scadente, tocca a lei guidare il gioco fra un esperimento grafico e l’altro, come se fossimo sintonizzati su un promo di MTV.

Una nota positiva, in questo brodo riscaldato di eroi, antieroi, geniali scienziati, ragazzi prodigio e grandi topolone cibernetiche, il seguente picco di coraggio: tra i due protagonisti, giovani e fighi, finanche nella sentimentale scena finale, il film resiste dal far scoccare il più classico dei baci risolutori. Almeno questo cliché ci è stato risparmiato. Fino al prossimo sequel.

(Cristina Fanti)

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sabato 27 novembre 2010

Jackass 3D

Bisogna intervistare Johnny Knoxville, la prossima settimana a Roma per presentare Jackass 3D.
Io? Jackass?? Dai, mi ha fatto ridere un totale di due volte in tutta la mia vita ed entrambe quando ero al liceo, sono certamente, abbondantemente, fuori dal suo target.

Non a caso dopo appena mezz’ora di proiezione comincio a intessere un forte carteggio di e-mail dal cellulare.

Per chi non conoscesse il fenomeno, si tratta di uno show televisivo affacciatosi nel 2000 su MTV in cui un drappello di deficienti esegue numeri pericolosi e disumani esperimenti. Una frase emblematica di questo ultimo capitolo della saga (passato al cinema con due precedenti uscite per motivi apparentemente inspiegabili, ma forse se dico “soldi” non ci vado molto lontana) afferma che i cardini della serie sono, perdonate il francese ma rispetto la proprietà intellettuale citando meticolosamente, “merda, vomito e adrenalina”. Non si dicono bugie, questo film, e con disgustata rassegnazione uso questo termine, ne è pieno.

La dinamica del “documentario”, così categorizzato su IMDb, è la seguente: ogni scherzo, ogni prova, ogni candid camera realizzata da questi “somari” (in traduzione letterale il titolo del franchise) inizia con l’esecutore che declina le proprie generalità in caso d’imminente morte e con il titolo dell’impresa che appare in sovraimpressione e buca la terza dimensione.

Abbiamo un ricco carnet di straordinarie esecuzioni delle quali non si poteva proprio fare a meno: lancio della freccetta tramite flautolenza con successiva perforazione di un palloncino gonfiato ad aria e tenuto tra le natiche del partner, sempre tra le natiche una mela mangiata da un maiale (e anche da un uomo), seduta di bunjee jumping dentro un WC chimico usato, cocktail di sudore bevuto dallo stesso uomo della mela e infine un bel plastico di una verde campagna solcata da un trenino con un piccolo vulcano che erutta – il vulcano per farla breve è un ano.
Una succinta lista giusto per nominare i picchi più salienti. Per il resto alcuni stunt sono apprezzabili, salti ed evoluzioni con vari mezzi di locomozione. Le scene d’apertura e di chiusura sono quasi stonate, con ralenti e art direction interessante fra ricerche cromatiche ed effetti speciali ben realizzati. Inutile credo sottolineare che il 3D non ha motivo di essere.

Evitando ogni forma di vana retorica, in soldoni, mi sono annoiata, sono stata disgustata in alcuni passaggi e in generale ho rosicato di aver sprecato il mio tempo e due biglietti della metro per guardare una decina di decerebrati che pensano ci interessi vederli dare sfogo alle loro voglie masochistiche (vere? Architettate per inventarsi un lavoro?).
Può essere che io sia cromosomicamente impossibilitata ad apprezzare le loro gesta, anche se, sono sincera, mi ha strappato un sorriso la prova della flautolenza e del palloncino, impressionante emissione d’aria. Gli uomini in sala dal canto loro hanno dato prova di gradire, ridendo fragorosamente durante quasi tutta la mia via crucis. Diversi, deo gratias.
Non so se si possa ridurre tutto a una mera questione sessista, forse come i protagonisti della pellicola sono affascinati dall’arte del vomito esiste qualcuno, a prescindere dal sesso, a cui piace osservarne la messa in fieri.

Per quanto mi riguarda lo stanziamento di denaro per produrre e distribuire questa merda (per usare un termine che anche i “somari” capiscano) è vergognoso e veramente al di là di ogni mia comprensione.
L’industria non concede scrupoli e la mente è perversa, questa la lezione che porto a casa oggi. Chiederò a Johnny Knoxville la sua opinione a riguardo.

(Cristina Fanti)

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sabato 18 settembre 2010

Mordimi - Vampires Suck

Mi trovo in difficoltà. Scrivere una recensione di Mordimi è un po’ come esprimere un parere gastronomico sull’enterogermina. Non sa di niente.

Il film dovrebbe essere una parodia sul genere dei vari Scary Movie, Epic Movie, Hot Movie, Disaster Movie e tutti quei "Qualcosa Movie" che vi vengono in mente. Infatti, per coincidenza, è scritto e diretto dagli stessi geniacci. Alla loro migliore prova per quanto mi riguarda, non perché il risultato sia buono, ma perché perlomeno è solo incredibilmente noioso invece che insopportabilmente irritante. Questa volta, per portare una ventata di freschezza, centrano il loro mirino su una saga in particolare, invece che su una categoria narrativa in senso lato.

E così rubano la trama di Twilight e producono una copia più economica e più insulsa dei tre film della saga centrifugati in 82 minuti. Possiamo anche dirlo, già i film originali non erano un granché. Non c’era veramente nessun bisogno di farne un sunto. Stephanie Mayer dovrebbe probabilmente fare causa.

E’ imbarazzante vedere una commedia languire nel silenzio per un’ora e mezza, con battute lanciate in una platea che è un vuoto cosmico. In fondo mi dispiace che Twilight non sia riuscito ad ottenere una parodia migliore. Molte delle frecciate del film consistono nel menzionare una serie di reality show, quando non sono completamente devote a sottolineare la loro rilevanza rispetto all’universo a cui si ispirano, come se gli “autori” non capissero che per il pubblico questo concetto sia già assodato. Ad eccezione forse di chi è andato in bagno ed è poi rientrato per errore nella sala sbagliata. Un continuo rimarcare e spiegare, rompendo la quarta parete. Esempio: Jacob perché sei sempre senza maglietta? – E’ scritto nel contratto – Jacob mostra il contratto, sguardo in macchina. Inesorabile gelo.

Ho contato tre risate. Quando nella caffetteria accanto ai Sullen (i nostri Cullen) appaiono i tipi di Jersey Shore tutti oliati e in posa. Quando Becca (si, i giochi sui nomi sono la parte peggiore) dice di aver capito cosa sia Edward in realtà, ben vestito, bianco cadaverico e sessualmente astinente, è un Jonas brother. Quando Edward dice a Becca che anche solo l’odore del suo fiato è il Paradiso e lei gli pianta una flautolenza in faccia fancendolo volare giù dalla finestra, come il miglior Fantozzi. Preso il pubblico per sfinimento alla fine sulla puzzetta si rilassa e si fa due ghigni.

Devo ammettere che le scenografie e i costumi sono calzanti e Jenn Proske fa un’ottima imitazione di Kristen Stewart che parla guardando per terra, sbatte le ciglia e si morde le labbra. Se solo le avessero dato qualcosa di divertente con cui destreggiarsi.

L’impressione generale è che i timonieri di questa iniziativa fossero troppo sfaticati per qualsiasi cosa che non fosse una copia scena per scena dell’originale, quando focalizzandosi di più su un’effettiva satira dell’universo di Twilight avrebbero ottenuto, con un po’ di sagacia, forse, qualcosa di davvero divertente.

Credo abbiano cercato di prendere in giro Twilight senza far arrabbiare i fan e con questo intendo che hanno semplicemente mostrato loro, di nuovo, i film che avevano già gradito.

(Cristina Fanti)

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Butterfly Zone

La premessa di questo film è a tratti interessante.
Un’astronave emana un raggio luminoso sottolineato dall’audio di una lingua aliena. Nei sottotitoli a corredo si legge che l’ET in questione ha commesso un grossolano errore e viene sgridato da quello che è presumibilmente il suo capo. Ci sembra di assistere ad un battibecco tipico di quei mostriciattoli verdi delle puntate di Halloween dei Simpson, alieni guasconi e casinari all’Americana.
Si ha questa idea dall’incipit della storia: uno sci-fi movie dalle tinte ironiche. Un tentativo di traduzione all’amatriciana di film come Independence day o Mars attacks. I miei occhi sbrilluccicano e l’attenzione si desta. Magari fosse così. Naturalmente, ne ho la conferma poco dopo, c’è un motivo se i film di fantascienza si fanno negli Stati Uniti e non in Italia.

L’assunto è folle. Il raggio alieno della prima scena che ha colpito la vigna di Francesco Salvi ha trasformato i suoi chicchi d’uva in passaporti per l’aldilà e così un sorso del vino che ne deriva permette di viaggiare a cavallo delle coscienze, in una dimensione ultraterrena che però mi sembra non abbia molto da dire. Il tutto si trasforma in thriller quando accidentalmente, attraverso questo ponte interdimensionale aperto dal vino, torna sulla terra un sadico assassino guidato da un qualche istinto mistico a la Codice da Vinci, che però sfortunatamente non fa paura a nessuno ed è credibile quanto il Puffo Burlone.

Il regista stesso, per darsi un tono cinefilo, dice di amare la commistione e di aver infatti su di essa puntato tutto. Forse però non ha controllato che sul dizionario alla voce “commistione” non c’è scritto: accozzaglia informe di elementi di genere. Comicità da bar dello sport, presenze surreali - come una banda musicale immobile in un campo di grano (per nessun motivo apparente), citazioni a caso tanto per gradire - come Barbara Bouchet vestita da Salvador Dalì, e via discorrendo.

Nel sottobosco della trama un vecchio uomo d’affari cerca di appropriarsi del vino in questione per poter così controllare le nascite e le morti. E’ un concetto che non ho avuto neppure voglia di analizzare, ma nella sua rappresentazione, nella sua recitazione forzata, mi ha ricordato il piano malefico di un nemico molto poco riuscito della serie televisiva Streghe.

Gli attori sono spesso innaturali, anche se il regista ostenta un gioco alla libertà di espressione che avrebbe dovuto facilitare gli interpreti nel raggiungimento della naturalezza espressiva. Alessandra Rambaldi ne esce particolarmente sconfitta.

La stessa scelta dei nomi dei protagonisti la dice lunga sulla predisposizione dello sceneggiatore/regista/curatore della colonna sonora, fin troppo strambi e ricercati, come se ci volesse far ridere ad ogni costo, come se in ogni minimo particolare sentisse la necessità di sottolineare la sua peculiarità artistica e il suo coraggio nell’aver realizzato un film così “colorato” – traduci: “pretenzioso”.

All’uscita dalla proiezione ci regalano una bottiglia di vino, forse per aiutarci a dimenticare.

(Cristina Fanti)

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venerdì 17 settembre 2010

Un canzone per te

Lasciatemi confessare che sono un’appassionata di commedie americane, e negli anni ho masticato abbastanza film liceali da avere il palato fine.

Alla conferenza stampa di Una canzone per te si mettono subito le mani avanti: “è una commistione di generi” dice il regista, alla sua opera prima. Un eufemismo, che tradotto ci dice che ci troviamo davanti ad una grande accozzaglia.
Si fanno nomi importanti: John Hughes (il genio che negli anni 80 ha reinventato il teen movie), Ritorno al futuro, Slining doors. Come riferimento musicale gli Zero Assoluto (presenti in conferenza perché autori di una delle canzoni della pellicola) nominano Juno. Che coraggio.

Questa la trama: un ragazzo scapestrato ma molto “figo”, fidanzato con la più bella della scuola, rischia di perdere l’anno scolastico perché dedica più tempo alla musica che allo studio. Il giorno del compito d’italiano una serie di cose gli vanno storte, tanto da lasciarlo senza band e senza dolce metà. Grazie ad una specie di guru telematico avrà una seconda chance di rivivere quella brutta giornata e possibilmente farla andare meglio, o peggio… Il tutto lo porterà a scoprire nuove amicizie e profondità del suo stesso animo.

Ho parlato di accozzaglia perché il sapore fantastico con cui si comincia viene ben presto accantonato e totalmente dimenticato. Eppure era proprio questa la parte più innovativa della pellicola, che apriva il genere adolescenziale italiano a nuovi stilemi mai tentati prima. Il tutto scivola invece verso il più classico topos dell’amore al tempo degli esami di maturità, che avendo un predecessore di alto rango come Notte prima degli esami affronta uno scontro impari.

Si è detto che si voleva arrivare ad un prodotto che miscelasse il meglio della tradizione americana ed italiana. Ecco, il secchione di turno, Guglielmo Scilla (popolare Youtuber che è stato scelto proprio grazie alla sua notorietà mediatica, cosa già di per se molto a stelle e strisce), è un personaggio che sembra arrivare dritto da Los Angeles, con le sue gag, smorfie e magliettine improponibili. Tra l’altro somiglia a Jack Black. D’altra parte il padre del protagonista, Sergio Albelli, è il prototipo del romano che tanti comici negli anni hanno contribuito a realizzare. E funzionano, entrambi.

Purtroppo nel mezzo c’è tanta mediocrità. Michela Quattrociocche è la ragazza perfetta, una sorta di Cher di Clueless dopo una lobotomia. Andrea Montovoli è il rocker borchiato che fa tremare tutti, mi ricorda il Patrick Verona di 10 cose che odio di te, solo che in quel caso si trattava di Heath Ledger, e Heath Ledger ha vinto un Oscar. Martina Pinto fa la sgualdrina, la pallida ombra della Nadia di American pie. E Carolina Benvenga la maledetta invidiosa, quella Lana di Pretty princess.

Forse ho perso il contatto con quello che è l’universo liceale di questi tempi, fatto sta che c’è qualcosa che non mi torna. La storia fresca e gli occhi azzurri di un bel giovine nonostante i tempi che cambiano sicuramente avranno ancora la forza di catturare i cuori delle quattordicenni, ma una domanda mi attanaglia: come può il direttore artistico di Mtv in persona, che ha curato la parte musicale, pensare di accattivare i ragazzi parlando loro degli eroi del rock classico e poi pretendere di emozionarli con i Sonohra??

Purtroppo finché in America continueranno a fare film come Mean girls non ce ne sarà per nessuno.

(Cristina Fanti)

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The final destination 3D

La saga di Final Destination fa un'ultima fermata sulla strada verso l'inferno dei film per la tv.

Ogni episodio fino ad oggi inizia nello stesso modo: giovanotti dalla pelle perfetta e i capelli lucidi riescono a sfuggire ad uno “spettacolare” incidente mortale grazie alla premonizione di uno di loro.
Questi incidenti si divertono a sfruguliare quelle paure universali che tutti abbiamo: nel primo film un aereo che precipita, nel secondo macchine e camion rotolanti su un'autostrada trafficata, nel terzo una montagna russa impazzita. Per il quarto film ci si rivolge alla comune paura di … erm … assistere ad una gara di macchine, a chi non è capitato?
Non è solo il fatto che la serie sembra aver perso contatto con ciò che veramente può spaventare che fa di questa pellicola un flop. Tutto quello che vediamo è semplicemente stato trattato nella maniera sbagliata.

Nei precedenti capitoli ogni morte avviene dopo una complessa costruzione ricca di suspance come in un meccanismo, e solo quando tutte le pedine sono al posto giusto la triste mietitrice sferra il suo colpo finale. In questa situazione invece una macchina buca e tutto il mondo comincia a distruggersi senza nessun motivo particolare finché non muoiono tutti. E soprattutto in quasi tutti i casi fuoco e detriti volanti fanno la frittata. Alla seconda esplosione già sbadigliavo.

Il cast è il peggiore di tutti fin'ora, un gruppo di attori sconosciuti (nel senso che il termine attore è loro sconosciuto), nessuno dei quali ha una personalità, quindi a nessuno importa se la morte è alle loro calcagna.
Questi baldi giovani riescono a scoprire cosa sta succedendo loro perché è scritto nel copione. Ad un certo punto si bisbiglia la parola “google” come una specie di scialba giustificazione circa la loro conoscenza degli avvenimenti ma non c'è nessun impegno nel provare a capire nulla di più. Dovrei scorrere i titoli di coda per scoprire se gli sceneggiatori sono gli stessi de Gli occhi del cuore. In ogni caso non c'è molto bisogno di altre spiegazioni visto che è tutto stato detto, e ridetto, nei precedenti film, o forse questo è un buon argomento per tirare fuori la domanda circa la necessità di realizzare un quarto capitolo.

Naturalmente la risposta è che ne hanno fatto un altro per poterlo rovinare con vari giochetti in 3D, quella stessa tecnica rivoluzionaria che James Cameron usa in Avatar. Sfortunatamente fiamme, brandelli di carne e sangue che ti volano addosso non riescono ad aggiungere nulla al film, e l'unico momento in cui il pubblico reagisce è quando una delle attrici sculetta fuori dallo schermo passeggiando per casa in mutandine. Un uso fin'ora inesplorato del 3D, ma se questo è ciò che James Cameron ha passato dieci anni della sua vita creativa ad inventare è stato un triste spreco di tempo. E' palese che invece che impegnarsi a studiare nuove modalità con cui dare l'estremo congedo ai vari personaggi qui si usi il 3D come scorciatoia per differenziare il prodotto, ma ovviamente questo non basta. Magari se siete appassionati di splatter trash troverete pane per i vostri denti, ma a mio parere tutto quanto accade fra una morte e l'altra è fin troppo tedioso per mantenermi interessata. Il regista Ellis aveva dichiarato di voler “aggiungere profondità” e non di voler “lanciare roba in faccia agli spettatori ogni due minuti”, ma deve essersi scordato del suo proposito.

(Cristina Fanti)

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Chloe

Sesso e bugie. Una storia di desideri proibiti e manipolazione della fiducia che poco a poco è spinta in una spirale discendente verso il cliché (Attrazione fatale al femminile). La strada è lunga e a quanto pare il freno è rotto perché si continua a volteggiare sempre più giù, giù, fino ai titoli di coda.

Julianne Moore è Catherine, un'affascinante ginecologa di successo ossessionata dal sospetto che il marito, Liam Neeson, la tradisca. Per testare la fedeltà del consorte ingaggia una prostituta di nome Chloe (Amanda Seyfried) che sedurrà l'uomo (per altro senza molte difficoltà) e le riporterà i dettagli di ogni incontro. Tutto ciò naturalmente aumenterà la gelosia di Catherine che sfogherà la sua tensione in modi inaspettati, facendo risvegliare in lei sensazioni da tempo sopite e lasciandola smarrita.

Per essere schietti, quando Catherine comincia a perdere il controllo, la stessa cosa accade al film. Come su una livella, all'aumentare della perversione corrisponde una minore credibilità; ed in tutto ciò è fin troppo facile rimanere sempre qualche passo avanti rispetto all'evolversi della trama. Seppure lo spettatore si sforzi di restare dentro agli avvenimenti, strizzando gli occhi come a far crescere la storia per magia, il finale distrugge tutto e il suo viso si distende al pensiero del letto caldo che a casa lo aspetta.

Catherine, con le paranoie sull'eccessiva simpatia del marito verso il gentil sesso e le preoccupazioni sulla bellezza che scompare, è sicuramente il personaggio più ricco di sfumature, all'opposto degli altri, poco raccontati, privi di motivazione. Tristemente questi aspetti intriganti della sua personalità sono relegati a sotto-testo e sono eclissati da più classici (e noiosi) effetti da thriller.
Liam Neeson ed Amanda Seyfried non hanno molto su cui lavorare vista la natura ambigua dei loro personaggi e delle loro azioni, vedendosi consegnati ad un ruolo di sostegno.

Da notare l'impegno delle due attrici per una causa persa: spinte da forte senso del dovere entrambe arrivano a spogliarsi ripetutamente, forse in questa storia hanno visto qualcosa, io no.

(Cristina Fanti)

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Promettilo! - Zavet

Già prima che finiscano i titoli di testa Kusturica stordisce lo spettatore. Lo schermo prende vita con cerchi concentrici bianchi su una ruota nera che gira vorticosamente, come quando alle elementari cercavamo di dare fastidio ai nostri vicini di banco.
E su queste note prosegue la pellicola, un'aggressiva commedia iperattiva, in un crescendo di trucchi, elementi fiabeschi, invenzioni strampalate e atmosfere da slapstick anni 30. Ho quasi l'impressione di assistere ad una proiezione simultanea dei Goonies, Tutti insieme appassionatamente e una versione a basso costo di Big fish.

Ci troviamo in Serbia, in un minuscolo paese di collina che conta appena tre abitanti. Tsane, un dolce dodicenne; suo nonno, un anziano rubicondo e scapestrato inventore di binocoli per spiare il vicinato che escono dalla cappa del camino; e Bosa, la provocante professoressa di Tsane, suo unico alunno, e spasimante del nonno.
Quando questi si sente vicino alla fine dei suoi giorni chiede al nipote di fargli una promessa, quella di andare in città, vendere la mucca di sua proprietà, comprare con il ricavato un'icona di San Nicola e trovare una bella moglie.
Il ragazzo così parte, ma non prima di aver dato una sbirciatina al prosperoso seno balzellante di Bosa attraverso il telescopio del nonno. In città lo attendono gangster sgangherati che hanno in programma di costruire una copia del World Trade Centre, due fratelli pelati e coordinati nelle vesti (camice a scacchi, pantaloncini da giovani marmotte e stivali da cowboy), e Jasna, una splendida studentessa del liceo che rapisce il cuore del nostro protagonista con lo sprint di una veloce pedalata.

Ciò che colpisce è la tendenza barocca che percorre la pellicola, in un succedersi di musiche e colori, sempre più forti e sempre più brillanti che danno vita ad una catena di cacofonie senza fine. E poi ci sono un paio di domande. La schizofrenia del pezzo, così diviso fra l'atmosfera cartoonesca fatta di colpi d'occhio e gags e una violenza e sessualità fortemente esplicite, è voluta o accidentale? Qual è il motivo (pensiero che mi dà i brividi) per cui un dodicenne dovrebbe andare a cercare una sposa liceale per poi consumare il loro amore prima del matrimonio dentro il cofano di una macchina che sfreccia sotto i colpi di proiettili e missili?
A meno che non sia io ad essere poco accorta o molto stupida e mi sto perdendo un brillante significato nascosto, mi sembra che Promettilo! voglia essere divertente e rumoroso ad ogni costo, esagerando in situazioni e modalità alla ricerca disperata di azione, qualsiasi azione, anche se fatta di tempi assurdi o ridicola. Risa amare.

(Cristina Fanti)

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