Visualizzazione post con etichetta freschi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta freschi. Mostra tutti i post

domenica 8 maggio 2011

RED

RED sta per “Retired Extremely Dangerous”, pensionato pericoloso diremmo noi. Da ciò già capiamo che il film schiaccia pesantemente l’acceleratore della fantasia più sfrenata. D’altronde stiamo attingendo all’immaginario fumettistico della DC Comics, per cui apriamo la nostra mente a tutto.

Bruce Willis si alza dal letto e mostra una certa rotondità a livello addominale. Da ciò capiamo che un’era è finita. Ma speriamo, sempre, che a un certo punto lo si ritrovi a indossare soltanto una canotta sudicia e strappata. Questo, perché lo sappiate, non avviene. La cifra stilistica di questo action con deambulatore, invece che attraverso i tradizionali muscoli oliati in evidenza, è espressa nel quantitativo di metallo sparato dalle più varie armi da fuoco. Per la legge della compensazione forse. A pochi minuti dall’inizio siamo bombardati da una parata di bossoli inusitata in una delle scene assolutamente più fuori di testa del genere.

E’ una nuova giovinezza dunque, che scavalca i limiti dell’azione targata anni 90, di cui questo film è erede in tutto per tutto, in una sorta di fanta-action al limite fra la realtà e Spiderman. Sempre in bilico tra azione e commedia, com’è ormai in uso da qualche anno per restituire spinta ad un genere che da sempre si è retto sul modello di un eroe di fine millennio tutto muscoli e ferite che ora non esiste più. I bodybuilder di un tempo hanno perso i capelli, sono ingrassati e diventati governatori.

Qualcosa dei vecchi tempi è però sopravvissuto, e cioè che la trama non conta. Sappiamo che Bruce, sebbene in pensione, è ricercato dai cattivi in quanto testimone di pesanti crimini di guerra all’epoca in cui era ancora un agente attivo della Cia, ma al momento della resa dei conti, e delle consuete spiegazioni finali, tutto si risolve in una supercazzola. Peraltro riuscita male.
Basti sapere che come lui ci sono altre persone in pericolo, i suoi vecchi compagni di battaglia e l’operatrice telefonica dell’ufficio pensionistico di cui si è innamorato, Sarah. Per questo bisogna riunire la banda, acciuffare la bella in pericolo e sconfiggere il nemico.

A parte alcune scene d’azione esaltanti (che però purtroppo sono tutte nel trailer), il film non mostra quel mordente che ci si aspetta dopo l’apertura ad alta concentrazione ferrosa. Per rimettere insieme i pezzi della vecchia macchina da guerra, ad esempio, la comitiva viaggia attraverso gli Stati Uniti, e ciò è banalmente sottolineato da cartoline che appaiono in sovraimpressione fra una tappa e l’altra. Un espediente poco fantasioso e decisamente televisivo a cui diciamo basta. Nelle scene non mostrate dal trailer, a parte uno John Malkovich molto sopra le righe e un paio di scontate ma funzionanti battute a stelle e strisce sulla vecchiaia – nonnetto, chiamano Frank, ma lui farà cambiare loro idea - la pressione è bassa e quasi necessita un controllo dal cardiologo.

Il sempreverde Bruce Willis fa quello che da decenni gli riesce meglio, con un paio di acciacchi in più. Tira due pugni e spara quel sorriso mezzo storto che conquista. Morgan Freeman è praticamente una comparsa. Mary-Louise Parker esercita i muscoli dell’ironia nella parte del sacco di patate trascinato qua e la, gli occhi e le orecchie del pubblico trasportati in medias res. Fa ridere perché ci s’immedesima con la sua normalità. Helen Mirren si trasforma in una Martha Stewart da trincea.
Karl Urban è l’unico “giovane” del cast. Pettinato da Hugh Jackman e vestito da primo della classe rappresenta il moderno agente segreto, programmato per uccidere e ingessato dalle regole. Di grande impatto, e inaspettata bellezza.

RED piacerà agli uomini e alle donne rustiche per le sparatorie, alle restanti donne per gli attori sexy e ai bambini per John Malkovich. Vi farà trascorrere due ore di piacevole encefalogramma piatto e alla fine vi sembrerà come un’ape che vi ha punto con la forza di una zanzara. Una grattatina, e avanti il prossimo.

(Cristina Fanti)

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

lunedì 2 maggio 2011

Come l'acqua per gli elefanti - Water for elephants

Capita a volte di discutere con chi non mangia pane e cinema su cosa faccia di un film un bel film. C’è chi crede che la chiave di volta sia la storia e non si accorge com’è appunto scopo del filmmaker dell’importanza della tecnica, che senza farsi notare costruisce e arricchisce l’opera al di fuori e al di sopra di ciò che essa racconta. Spesso in tali situazioni è difficile sostenere questa teoria senza esempi chiari e tangibili e a ciò Come l’acqua per gli elefanti ci viene incontro.

Una reinterpretazione del Titanic di James Cameron ambientata in un circo itinerante invece che su un transatlantico, e sviluppato a parti inverse. E’ infatti l’anziano Jacob ad essere presentato in apertura e a raccontare ad un giovane fintamente interessato le sue avventure amorose del 1931. Attraverso un lungo flashback scopriamo che Jacob è stato costretto dalla morte dei suoi genitori benestanti a vagare ramingo sui binari del treno e, saltando su un vagone a caso, è finito con il diventare il veterinario del famigerato circo dei fratelli Benzini. Si è innamorato poi della moglie del crudele direttore, che naturalmente, scoperto l’inganno, ha preteso la sua testa su un piatto d’argento. Salvo che, indovinate, l’amore ha trionfato, e dopo aver salvato la sua amata su una metaforica porta galleggiate, Jacob ha condotto una vita piena di gioie e di bellissimi ricordi.

Ma veniamo alle differenze. Per quanto entrambe le pellicole appartengano a un genere dichiaratamente sdolcinato e non gradito dai palati di tutti, non si può negare che la stesura e la realizzazione del colossal del 1997 sia stata curata nei minimi dettagli e giunga dunque, senza che questi ne individuino necessariamente i meccanismi, al cuore degli spettatori.

Tredici anni dopo non si usa la stessa attenzione, e benché la storia del romanzo da cui il film è tratto abbia avuto successo fra milioni di lettori, la sua trasposizione cinematografica è piatta come l’encefalogramma di un elefante. I personaggi hanno lo spessore di un post-it, e così di conseguenza la loro storia d’amore, che sboccia senza preavviso come una verruca. Un uomo e una donna che si conoscono appena e che all’improvviso si dicono “ti amo”, questo il sunto. Chiaramente si è puntato tutto sulle ricche atmosfere circensi, dimenticandosi che per un piatto ben riuscito bisogna dosare in maniera intelligente tutti gli ingredienti. Se ciò non avviene, anche se chi degusta non sa definire il perché, non gradisce il sapore di ciò che gli si serve.

L’unico lampo di recitazione brilla negli occhi di Christoph Waltz, che forse dovrebbe meditare di licenziare il suo agente. L’attore prova a lanciare piccoli ami di onore e compassione nel complesso del suo personaggio, ma il film è scritto con tale banalità nell’approccio alla dicotomia bene-male che tutti i suoi sforzi sono vanificati in un grosso cliché. August, il viscido direttore che maltratta animali e uomini, è ingoiato in un tunnel che lo costringe ad essere nulla più di questo. Il suo tentativo di scrollarsi di dosso il puzzo del colonnello nazista fallisce dunque, e anzi lo incasella ancora di più nello stereotipo del cattivo.

Reese Witherspoon ha una bella parrucca.

Di Robert Pattinson è meglio non parlare, non si spara sulla croce rossa.

(Cristina Fanti)
da cinema4stelle.it

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

domenica 1 maggio 2011

Machete

E’ nato prima l’uovo o la gallina? Nel grande schema dell’universo a questa domanda non c’è risposta. Nell’industria cinematografica si. Il primo è il film, poi il trailer. Quando l’ordine viene invertito è probabile che qualcosa vada storto.
Nel 2007 Rodriguez si diverte con il suo compagno di merende Quentin Tarantino a inframezzare il loro Grindhouse con ironici trailer immaginari di film inesistenti.
Passano gli anni, uno di loro diventa realtà, e in qualche modo l’ironia si perde.

L’inizio del film è promettente. Machete, un agente federale, combatte la battaglia del giusto contro un trafficante locale, Steven Segal. Si, quello Steven Segal, con indosso un centinaio di chili di troppo di lipidi complessi. Tutto nella scena di apertura è conforme agli standard del genere: gli angoli di ripresa, la saturazione del colore, i graffi alla pellicola, le decapitazioni, il sangue, le donne nude, chi più ne ha più ne metta. In pieno stile exploitation, molto goloso per chi ne è fan. A seguito di questa iniezione di violenza con abbondante scarica di sudicia aggressione visiva, il film collassa.

Tre anni dopo il prologo Machete fa l’operaio in Texas e viene ingaggiato per commettere l’omicidio del Senatore fanta-razzista Robert DeNiro. Si scoprirà che è stato incastrato, e che come regola generale è meglio non far arrabbiare qualcuno che somiglia a Danny Trejo, il quale ovviamente non la prende bene e si lancia in una corsa alla vendetta. Tutta la storia di qui in poi consiste nel tentativo di Machete di stare un passo avanti rispetto ai suoi nemici, che aumentano a vista d’occhio.

Robert Rodriguez, regista, autore, produttore e montatore della pellicola, avrebbe tratto serio beneficio da qualche taglio in più. Il film è oppresso dall’ingombro di un fiume di personaggi e da una trama tortuosa che sottrae minuti preziosi di presenza sullo schermo al viso rugoso del suo protagonista. Alla stregua di quel che successe per C’era una volta in Messico, con cui Rodriguez puntò all’epos ma si scordò che la sua forza risiedesse nel bagno di sangue.

Tutto ciò diventa particolarmente frustrante quando quello che del film funziona, funziona dannatamente bene. Le scene d’azione sono coinvolgenti e creative, e il sangue zampilla a secchiate senza però disgustare. Alcune battute sono molto divertenti, e se ne sente la mancanza nei frequenti momenti in cui il ritmo stagna nel cercare di trovare un senso logico agli avvenimenti attraverso i dialoghi. Innanzitutto, un senso logico non c’è, secondo poi, il film non ne ha minimamente bisogno.

Il personaggio di Lindsay Lohan, che praticamente interpreta se stessa, figlia di un uomo benestante, drogata e ninfomane, fenomeno mediatico di YouTube, potrebbe essere asportato completamente. Michelle Rodriguez, una militante di stampo guevariano, tant’è vero che si fa chiamare Shé, e Jessica Alba, una spietata agente del dipartimento d’immigrazione di frontiera, che però mostra di avere un cuore, avrebbero potuto essere combinate in un unico personaggio. Il villain di DeNiro sarebbe dovuto essere centellinato con maggiore parsimonia, il suo impatto è infatti inversamente proporzionale ai minuti di presenza.

A onor del vero quando Machete incastra termometri da arrosto dentro le persone, o si lancia dai piani alti di un ospedale usando gli intestini di un uomo come liana, o ancora quando Jessica Alba si scontra con un energumeno mascherato da wrestler usando come arma un paio di scarpe di vernice rossa tacco 12, ci si dimentica di tutti i problemi. Fatto è che questi a fasi alterne si ripresentano.

Il maggiore è che il film vuole prendere posizione rispetto al dibattito sull’immigrazione, ma il suo intervento praticamente si riduce ad un crasso, inutile “non siate razzisti con i messicani”.
C’è una sorta di distacco fra lo schermo e lo spettatore, l’atmosfera in sala manca spesso di slancio. Questo Machete sembra affilato come un coltello da burro.

(Cristina Fanti)

CHE NEPENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

sabato 16 aprile 2011

Cappuccetto Rosso Sangue - Red Riding Hood

C'è un gioco che si chiama Lupus in tabula.
Un gruppo di amici si siede in cerchio e si assegnano con discrezione dei ruoli da interpretare: gli innocenti villici, la veggente, il pazzo, il prete. E il lupo. Tutti chiudono gli occhi e nella notte quest’ultimo colpisce uccidendo uno dei compagni. Al risveglio il villaggio inaugura un processo per cercare di scoprire dietro il volto di chi di loro si celi il mostro.

C'è un film che si chiama Cappuccetto Rosso Sangue (grazie ai nostri fantasiosi traduttori, in paesi meno nevrotici semplicemente Cappuccetto Rosso) che è l'adattamento cinematografico di tale gioco, né più né meno, con l'eccezione dell'aggiunta del personaggio della nonna, la cui unica funzione narrativa è quella di donare a Valerie (Cappuccetto appunto) una cappa color rosso (rosso sangue visto che siamo in Italia).

La differenza fra il primo e il secondo è che il gioco ti coinvolge, il film ti distrugge.

Catherine Hardwicke, di fama twilightiana, ma ben più navigata nel mondo del cinema, ha preso una svista. Sembra che stia dirigendo un prequel della famosa serie dei vampiri senza capire che il traino di questa vicenda sarebbe dovuto essere la suspance, e non una storia d'amore. Se l’ardimentosa alchimia tra mostri e cottarelle ha funzionato una volta, perché sfidare la sorte?
Un gotico triangolo amoroso fra una bella adolescente dalla famiglia tutta particolare e due giovani del suo stesso villaggio, uno ricco e misterioso, l’altro falegname e... possibilmente lupo mannaro. Suona familiare? Lo è.

Questa pellicola non prova nulla, a parte che la regista conferma di saper scegliere la giusta musica rock da abbinare alle scene d’azione.
In un paio di passaggi si accenna quasi a un montaggio da thriller, ma per il resto abbiamo tutto il tempo di studiare molto dettagliatamente che tipo di applicazione è stata utilizzata per il trucco degli occhi degli attori.
L’attesa dello smascheramento del lupo è costruita decentemente ma spezzata, masticata e risputata quando il lupo stesso appare. Decenni di sviluppi tecnologici e non usarli.
Quando finalmente arriva, la rivelazione della sua identità per lo meno stupisce, ma senza grandi risvolti di meraviglia. Non entrerà di certo nella top ten dei migliori colpi di scena hollywoodiani.
La trama è stata messa sotto terapia astringente e laddove si tenti di costruire dei sub plot si sentono volare grossi sbadigli. I corteggiatori della nostra protagonista fra le altre cose, diciamocelo, sono brutti. Le donne del cast, Virginia Madsen e Julie Christie, sono troppo occupate a non spettinarsi.

In sostanza sarebbe bello invitare la Hardwicke a revisionare il film, ma questa volta con occhi grandi, per vederci meglio.


(Cristina Fanti)
da filmfilm.it

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

giovedì 14 aprile 2011

Scream 4

È difficile parlare di Scream 4 senza raccontarlo, perché alcune delle trovate più geniali sono appunto nelle pieghe inaspettate che prende la trama. Ma ci proviamo, partendo dalle certezze.

La prima: una catena di Sant’Antonio di rimandi cinefili, dai più agguerriti agli scontati (le bombe a mano lanciate su Saw IV, oggigiorno il maggiore concorrente della saga degli urli).
La seconda: il sangue, qualche ettolitro, sparso in ogni dove e senza mai più di cinque minuti d’intervallo. Un cast pesante e di grandi nomi per questo capitolo, pochi dei quali dovranno prevedere di tenersi liberi nel fortuito caso di uno Scream 5, solo per darvi un’idea.
La terza: l’(auto)ironia. Il film continua a prendere sagacemente in giro decenni di pellicole horror ma si ripiega anche su se stesso, con l’irriverente, reiterata insistenza sulle pecche della serie Squartati (iniziata in Scream 2 ma qui arrivata all’inverosimile settimo sequel), l’alter ego del franchise.
La quarta: la metacomunicazione. Fino allo stremo, fino anche alla risata un tantino forzata, un gioco di matrioske cinematografiche a cui non viene data mai pace.
La quinta: la tecnologia. E’ una nuova decade, cita il poster americano, e il film si diverte a toccare tutti quei tasti che non esistevano al momento della sua prima apparizione nella storia. La rovina dei valori della gioventù legata alla sete di fama, la vulnerabilità di un’umanità che vive in pubblico sui social network. E’ facile capire perché si senta il bisogno di confrontarcisi ma purtroppo sono tutte tematiche scadute cinque minuti prima.

Insomma, Sidney torna a Woodsboro dopo dieci anni di assenza per presentare il suo libro motivazionale su come sia possibile superare la condizione di vittima. La sua agente, che verrà giustamente punita dalla sorte, le organizza questo fortunato incontro pubblicitario proprio nel giorno dell’anniversario dei famosi delitti che le hanno cambiato la vita. C’è chi non impara mai. Con Sidney di nuovo in città l’aria diventa densa e Ghostface torna a colpire. Linus e Gale nel frattempo si sono sposati, il primo è lo sceriffo della città, la seconda una casalinga disperata, autrice delle sette sceneggiature di Squartati, ispirate alle “vere” vicende del primo Scream, ed ora in cerca di un reboot di gloria. Poi ci sono i giovani 2.0, ma solo i nati dopo il 1990 andranno a vedere Scream 4 per loro. La cugina di Sidney, le sue amiche, l’ex fidanzato e i nerd del club di cinema che servono a veicolare la prima e la quarta certezza.

Il modo in cui Williamson (lo sceneggiatore) riesce ancora a prendersi gioco degli stilemi del genere horror, per quanto forse è vero, è la terza volta che glielo vediamo fare, ha sempre un non so che di brillante. Il gioco alla destrutturazione delle regole danza su un filo teso fra la norma e il suo contrario, lasciando lo spettatore sempre un po’ indeciso se debba aspettarsi un colpo di scena di genere, o uno vero, innovativo. E ce ne sono di entrambi.
L’arte di Craven (il regista) e del suo pennello di sangue non è mutata. Per intenderci la violenza è vera, e non ridicolizzata alla Scary Movie, ma non ci troviamo neppure davanti al classico modello torturale che tanto piace alle folle di questi tempi. E’ poco sadica, molto più vintage che nuovo millennio.

E’ dunque chiaro che questo film non è pane per i denti di tutti. Andrà bene per i fan della serie, per i cinefili incalliti, per chi vuole tornare a respirare un po’ d’aria anni ’90 e per chi a quest’aria ci voglia educare  fratellini o cuginetti.

(Cristina Fanti)

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?



venerdì 8 aprile 2011

Limitless

Una metafora dei nostri tempi. “E se una pillola ti rendesse ricco e potente?” Il sogno americano, la sovranità intellettuale e di mezzi rispetto ai vili consimili. Ecco così che postulata l'ipotesi, il teorema si risolve con un metodo assolutamente contemporaneo.

Uno scrittore che ha accesso all'intero potenziale del suo cervello attraverso l'assunzione di una droga che ne rende le funzioni, appunto, “illimitate”, abbandona i suoi lodevoli sogni di realizzazione artistica, che un tempo lo avevano fatto rinunciare perfino all’amore, e s’immola all’altare del dio denaro. Molto in fretta per giunta, e con che facilità!

Iniziata la scalata al successo grazie al suo (illegale) asso nella manica comincia a scoprire che come sempre per ogni scorciatoia c’è un prezzo da pagare. Stiamo citando l’attore protagonista, Bradley Cooper, che dopo la proiezione ci ha parlato del film. Nella vita, per non correre rischi, non ne prende, ma il suo personaggio invece ci naviga a vele spiegate.

Un’avventura iper-attiva, iper-luminosa, iper-grottesca, iper-panoramica, tratta da un libro che curiosamente non ha lo stesso finale. Sulla carta stampata Eddie Morra, il nostro simpatico e belloccio tossico d’alto bordo, si ritrova solo e squilibrato ad aspettare la morte in una casa buia; nei cinema è invece un vincitore che strizza l’occhio al dubbio sulla sua incerta onestà, ma che ciò nonostante si tiene stretto, e si gode, i suoi allori. Cooper sostiene che tale cambiamento è stato pensato per concludere il film con lo stesso spirito propositivo e leggero con il quale inizia. Ma viene presto in mente che anche una certa abitudine del cinema mainstream a non ammettere nuance e a farsi specchio quasi esclusivamente delle realtà invincibili possa averci messo il suo zampino.

Il che peraltro fa a cazzotti, e in un film così questa metafora ci sta proprio bene, con una regia che è invece abbastanza fuori dagli schemi. Tra giochi d’inquadrature e movimenti di macchina veloci attraverso, oggetti, edifici e mezzi di trasporto, il regista si trastulla con flashback e inserti quasi Eisensteiniani.
Segno particolare un pittoresco quanto elementare espediente volto a identificare le fasi umorali dei personaggi: l’esasperato cambio di luce ogni qual volta questi siano sotto l’effetto della pillola miracolosa, che non è blu ma trasparente, e che vira l’immagine tutta in un’aura dorata, come in un mondo di dei.

A proposito di divinità, Robert De Niro interpreta un magnate della finanza che intreccia la sua strada con quella di Eddie. Poche scene, poco pathos, ma la solita presenza che cattura l’occhio dello spettatore dentro al suo.

A tirare le somme Limitless è un film grasso e fresco come una torta gelato che tratta la corruzione dell’essere umano cospargendola di zucchero a velo. Solo le donne, anche quelle che provano la pillola e ne accarezzano l’ebbrezza, sembrano sottrarsi al suo potere. Che non ne abbiano bisogno? Sarà il caso di rivedere la teoria Darwiniana?

(Cristina Fanti)


CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

giovedì 3 marzo 2011

Easy girl - Easy A

La sfilata lenta e regolare nei ben noti corridoi liceali d’irrilevanti commedie adolescenziali, i nerd della scuola, è stata negli anni occasionalmente ravvivata dal passaggio veloce di quel bellissimo giocatore di football o di quella bionda cheerleader, che hanno fatto girare molte teste. Parliamo delle fortunate rielaborazioni di classici riassettati in base all’ultima moda, che le donne di oggi citano religiosamente a memoria: Ragazze a Beverly Hills, ad esempio, Emma di Jane Austen, e 10 cose che odio di te, La bisbetica domata di quel tale William Shakespeare.

Easy Girl passeggia tra una classe e l’altra al cambio dell’ora tenendo a buon titolo la testa alta ed entra con convinzione nell’aula del club di letteratura. Non è un pedissequo remake de La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, piuttosto un'occhiata indiscreta alle tematiche del romanzo - ipocrisia, umiliazione, conformismo, codardia sociale, bontà individuale - all'interno di un liceo californiano dove il libro è inserito nel programma didattico.

Emma Stone, difetto di pronuncia incluso, confeziona un personaggio intelligente e sagace, che quasi ci si chiede come facciano i suoi ciechi coetanei a non trovarla attraente. Ma questa domanda ce la siamo posta un po' tutte crescendo e la risposta è sempre stata la stessa. Gli uomini in adolescenza non posseggono il lume della ragione.

Dunque Olive, la Stone, è una ragazza come tante, che passa metà del suo tempo a parlare di sesso e l’altra metà nella sua stanza a non farlo. Messa alle strette e desiderosa d’impressionare la sua amica più discinta, di cui non può che invidiare le tette enormi, confessa un finto rapporto sessuale, mentre la mostruosa fondamentalista cattolica di turno origlia e provvede poi a trasformare questo pettegolezzo in uno scandalo. Presto, per far trent’uno, dopo aver aiutato un gay tormentato ad apparire agli occhi dei compagni come un perfetto eterosessuale, Olive si guadagna una A+ in prostituzione giovanile.

Nonostante una ragazza come lei avrebbe dovuto intuire che le cose stavano per mettersi male, Olive sceglie con cognizione di giocare al femminismo postmoderno. Usa la sua sessualità senza vergogna, vestendosi da spogliarellista di prima mattina e cucendo una “A” scarlatta su tutti i suoi mini bustini. Ma quando confessa a coloro di cui si fida di essere in realtà ancora vergine, beh, non mostra vergogna neanche in questo. Easy Girl è come un ananas dopo il pranzo alla mensa, fresco, e depurativo. E’ libero da giudizi morali sulle variabili del fare sesso o meno concludendo che non importa con chi si vada a letto basta che ognuno lo tenga per sé. Non si tratta del messaggio più rivoluzionario, certo, ma di uno assente nella maggior parte dei teen-movies, ossessionati dall’incasellare il sesso in un senso o nell’altro.

Puntuale come una campanella fra una lezione e la successiva, su alcuni passaggi la trama diventa troppo tentacolare: le avventure del professore di lettere con moglie fedifraga e di un pluri-ripetente di 22 anni sembrano prese in prestito da un film peggiore, meno sicuro di sé. Molto bizzarra anche la parte di Amanda Bynes, ex regina di questo genere di pellicole, che pare trapiantata da uno dei suoi vecchi film senza essersi messa nel frattempo al passo con i tempi. La Bynes interpreta Marianne, una replicante figlia del cattolicesimo, la quale, anche considerando gli standard di grande caratterizzazione dei personaggi che piagano questo tipo di film, non è niente più che un bullo di una sola dimensione che rifiuta di seguire il corso “religioni delle altre culture” bollandolo come fantascienza. Mandy Moore in Saved dopo che qualcuno l’ha scordata nella varechina.

Questo esperimento della neo wave hughesiana non possiede la scintilla di Una pazza giornata di vacanza o la frizzantezza di Mean Girls, ma fornisce una puntuale, intelligente istantanea della natura della reputazione nell’era della socializzazione online, quando qualsiasi cosa che sia inviata per sms o pubblicata su facebook è automaticamente vera, anche senza lo straccio di una prova. La stessa protagonista ricorrerà a YouTube per fornire la sua versione dei fatti. Finché non accende una telecamera, se la punta addosso e trasmette dalla sua stanzetta, infatti, nessuno la sta neppure ad ascoltare.

(Cristina Fanti)

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM? 


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

mercoledì 2 marzo 2011

The Fighter

Un film cullato per tre anni, nato da un cortometraggio, voluto con fatica da persone che si sono innamorate della storia di redenzione di questi due fratelli e ci hanno creduto. Giunto nelle mani di Mark Wahlberg, lui, appassionato della vicenda già da tempo, e combattivo più che mai, lo ha portato alla luce, la luce del Massachusetts, che ha impressionato la pellicola con i toni spenti della periferia. Scenografie, costumi e apparenze poco lusinghiere degli attori costruiscono un mondo reale e crudo, un crudo neppure troppo ripulito con il noto smacchiatore “Hollywood”. Questa troupe ha giocato a fare l’indipendente, mostrando di affidarsi alla recitazione invece che ai numeri della produzione. Una decisione che giunge dal cuore ma che forse al cuore non arriva fino in fondo.

Si tratta di un Rocky impolverato, rotolato nel terriccio e sgrullato grossolanamente. Lo scheletro del film è lo stesso di molti altri del genere, una storia di drammatiche conquiste atletiche, ma la forma e il tono della carne poggiata sopra queste ossa distingue The Fighter da molti dei suoi cugini cinematografici. La storia di Mickey, che cerca nelle difficoltà di arrivare al successo, con un allenatore drogato, suo fratello, vecchia gloria della boxe, e una manager alcolista, sua madre, che si crogiola nel bagliore della fama ormai scaduta del primogenito, costituisce l’arco narrativo. Ma sono i personaggi ciò su cui batte il fuoco la macchina da presa. Fallati e pacchiani come oggetti acquistati al discount, ma, come questi, anche positivamente basici, veri, all’osso. Russell non si allontana quasi mai dalle facce e dai corpi dei suoi protagonisti, lasciando che le loro espressioni e i loro gesti, sia fuori che dentro il ring, veicolino il nucleo pulsante che si cela dietro lo spettacolo offerto dallo sport, che è poi il punto stesso del film. E’ aiutato dalle scintille che emanano i dialoghi, fruste lanciate avanti e indietro come affilati pugnali.

I blocchi di scene corali della famiglia Ward-Eklund sono la cifra di un film costruito con cura. Nulla giace troppo a lungo e lo stile di lotta testa-corpo/testa-corpo che ha reso famoso Ward ha un eco nello stile di regia di Russell, che alterna nel suo spartito boxe-famiglia/boxe-famiglia. Il film si apre con un’ottima prima scena, apice artistico della pellicola, nella quale seguiamo Dicky e Mickey che camminano per strada, facendosi belli in giro per il quartiere, tampinati da una troupe televisiva che filma quello che Dicky pensa sarà un documentario sul suo ritorno al ring. La macchina da presa è portata con leggerezza, s’incunea e si ritrae dalla messa in scena, danza come un pugile, ma presto poi purtroppo si dimentica di come si combatte.

Mickey Ward è uno strumento monocorde. Nella vita, trascurato in favore delle sue sorelle impossibili e del suo vistoso fratello, ha sempre parlato poco e picchiato molto. In questo senso Wahlberg lo suona alla perfezione, sembra quasi non recitare affatto e si potrebbe perfino incolparlo di aver lasciato che il cast di supporto riuscisse nell’adombrare così tanto il proprio leader (non a caso è l’unico rimasto a secco di nomination).

Dicky d’altro canto ha una mente fenomenale e conosce la boxe meglio di ogni altra cosa. Ad eccezione di dove trovare del crack. Bale ci convola a nozze, ci mostra un angolino di recitazione con la “R” maiuscola e ci apre un mondo, come è solito fare. A questa divinità del trasformismo va incontro la più nuova moda cinematografica, che prevede per i film basati su persone reali il dovere legale di mostrare almeno un fotogramma, sentimentale e celebrativo, di queste stesse durante i titoli di coda. E così li vediamo, tanto riconoscibili quanto ovviamente non così attraenti come i divi che prestano loro il corpo, a sottolineare l’autenticità del film con la loro palpabile verità, e il lavoro che questo sconvolgente attore ha palesemente compiuto su se stesso si tinge di nuove profondità.

Nonostante tutte le nomination agli Oscar, e le relative vittorie, The Fighter andando a stringere non è altro purtroppo che la somma delle sue parti e una semplice, discreta vetrina per far brillare ancora una volta la più eclettica, meravigliosa stella del firmamento hollywoodiano, un certo Christian Bale.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it


CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

sabato 19 febbraio 2011

Un gelido inverno - Winter's bone

Il cinema americano ci mette nuovamente di fronte alla storia di un’adolescente. Questa volta invece del classico armadietto nel corridoio della scuola c’è una cucina scassata; al posto della squadra di football c’è una madre catatonica e due fratelli da mantenere; invece di pigiama party e sedute di trucco c’è la caccia e lo scuoiamento di piccoli scoiattoli; a sostituire il fidanzato biricchino un padre che spaccia metanfetamine, ed è momentaneamente scomparso.

Un gelido inverno appartiene alla più classica categoria di film da festival indipendenti, conquistati da storie gravi di gente miserabile che vive negli angoli più poveri del paese, i cosiddetti “stati da sorvolare”, e i cui alti e bassi morali ed emotivi sono accompagnati da chitarre acustiche e panorami evocativi, generalmente indifferenti allo humor.

S’inizia con una melodia sottotono nell’indigenza di una casa divorata dal bosco e si finisce con un crescendo horror con sega elettrica in un lago illuminato dalla luna. Questo spartito segue l’errare di una ragazza costretta a mettersi sulle tracce di suo padre quando questo usa la loro casa come cauzione. Per tenere un tetto sulla testa di tutti Ree (Jennifer Lawrence) deve trovarlo e portarlo in tribunale il giorno designato, ma nel tentativo di condiscendere a questo insolito obbligo familiare comincerà a far emergere segreti che non hanno un buon odore. Girovaga nel sottobosco di porta in porta chiedendo informazioni, aiuto o solo un brandello di basilare gentilezza.

Così facendo è costretta a tradire il codice del silenzio che mantiene la sua famiglia allargata, quasi l’intero paese, fermamente e orgogliosamente sul lato sbagliato della giustizia, oppure affrontarne le conseguenze. Ree è una moderna Antigone dalle pretese etiche che sono insieme interamente coerenti e potenzialmente fatali. Sebbene conosca e accetti le regole tribali che guidano il suo mondo, deve scegliere di scavalcarle, armata di un senso di giustizia considerato come il peggior sgarbo possibile da chi la circonda.

E’ tangibile il rammarico dei compaesani di non poter togliere di mezzo questa ragazzina ficcanaso causa legami di sangue, seppur labili. Allo stesso tempo le promettono tanto dolore, molto più di quello previsto per uno sconosciuto comunque, se tiri troppo la corda di questo privilegio.

Chiunque conosca la verità su suo padre è disposto a tutto per tenerla nascosta. Chiunque la incontri la fulmina con gli occhi. La persona potenzialmente più pericolosa di tutte è suo zio Teardrop – dal tatuaggio a forma di lacrima sotto l’occhio sinistro - (John Hawkes). Dà l’impressione che in ogni istante potrebbe aiutarla, assalirla o ucciderla. Il pubblico non può attestarlo con sicurezza, così anche Ree, e nemmeno Teardrop stesso.

Alcuni degli attori non sono professionisti e fra un tocco di banjo e una passeggiata nel bosco, in una pellicola che tutto sommato è molto taciturna, ci consegnano di quando in quando le loro battute con perfetta ingenuità (e accento, che si perde naturalmente al doppiaggio).

Granik ci presenta un dramma naturalistico con punte di thriller inaspettate usando musica country per sottolineare lo stoicismo e la melanconia di questo brutale mondo privo di morale.

Ad una scena, quando Bree tenta di entrare nell’esercito per incassare i 40.000 dollari di ricompensa, affida la risoluzione dl film. Il soldato che intervista la ragazza demolisce con tatto il suo sogno di scappare. Lui appartiene a un mondo fatto di possibilità ragionevoli, Ree vive altrove, in un universo governato da antichi rancori ed elaborati, inflessibili obblighi, onore e vergogna. E così il film si trasforma in ciò che in definitiva è: una storia di formazione attraverso cui la protagonista scopre quanto sia crudele il suo habitat naturale e contemporaneamente sia iniziata ad esso senza grande concreta possibilità di fuggire.

Noi però possiamo fuggire senza problemi da questa pellicola che fa sensazione per la bravura dell’attrice, come tante altre brave attrici, e per le tematiche scomode, trattate con mano adeguata, a cui si sa piace sempre battere le mani, ma che non genera molto più di qualche rispettoso sbadiglio.

(Cristina Fanti)

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

giovedì 17 febbraio 2011

Sono il numero quattro - I am number four

I giganti calvi con tatuaggio tribale al posto dei capelli, branchie intorno al naso e denti dall’aspetto cariato ci sono. La stellina del tv-show del momento anche. Musiche di grido direttamente da MTV ad accompagnare pirotecniche esplosioni. Petti gonfiati, addomi scolpiti ed effetti speciali. Un cocktail gustoso, colorato, e con la fragolina a bordo bicchiere, ma shakerato con la vodka del discount, come quello dispensato a ripetizione, ormai per pochi spiccioli, dai nostri teleschermi. Con la differenza che questa volta siamo al cinema, di fronte ad un lungo, glorificato, episodio di telefilm.

Buffy l’ammazzavampiri incontra Heroes. Fratello del primo causa personaggi malvagi poco credibili, caricati al massimo nelle loro caratteristiche mutanti, che poi si risolvono nella semplice, piccola alterazione di alcune forme umane. Ancora si sente l’odore del silicone ed è calda sulla pelle degli attori l’impronta digitale del makeup artist. Cugino del secondo per l’impegnativa avventura di formazione di colui che riceve dei poteri senza sapere come usarli e deve aggiustare la sua vita a questo dono. Atmosfere buie e acrobazie fenomenali, con l’auspicato potenziale d’innalzo del sex appeal del protagonista per impennare i risultati al botteghino.

Una sorta di genero di Twilight, perché frutto di una fatica letteraria, neanche a farlo a posta una saga, e per quel suo protagonista un po’ outsider che alla prima occhiata fa scendere l’entusiasmo ma alla seconda la gonnella, rivelandosi di un altro mondo, uno speciale. Molto poco speciale invece la sua performance, che tutto sommato non è spiccata come i suoi muscoli, e lascia un buco nell’ordito.

Lo sfortunato erede di un mondo distrutto è costretto a nascondersi sulla Terra e a cambiare scuole come un normale ragazzo cambia t-shirt. Il suo nome è inventato, la sua identità è in realtà legata a un numero, il Quattro, anche se non si capisce bene perché. Nove sono i superstiti del pianeta Lorien e i terribili calvi di cui sopra li stanno eliminando, senza motivo, in ordine crescente. Fin ora hanno avuto la meglio sui primi tre di loro e per questo John, insieme al suo protettore Henri, decide di mischiare un po’ le carte trasferendosi ancora una volta. Nel suo nuovo liceo, popolato da figurine scollatesi dall’album della banalità, il quoterback, la biondina e il nerd, è necessario mantenere un basso profilo, cosa molto difficile se ti si accendono i palmi delle mani come schermi dell’iPhone e se puoi lanciare in aria persone e macchine della polizia come fossero carte da gioco. Diciamo che Numero Quattro incontra grossi problemi a non finire su YouTube.

Insomma, ci stanno raccontando una storia adolescenziale corretta, come fu per The Faculty nel 1998 e come è per tanti telefilm ai giorni nostri, da quando il binomio scuola e vampiri ha creato più assuefazione di quello caffè e sigaretta. Una base su cui si può lavorare, ma che Caruso e il suo produttore Michael Bay non sanno ottimizzare, lasciandosi prendere la mano dalla computer grafica senza darle il sostegno necessario da parte della storia e dei personaggi affinché questa ci lasci senza fiato. Tradiscono a suon di raggi laser lo spirito inizialmente evocato nei primi minuti di film, quello di un incontro ravvicinato molto radicato nella realtà. Vorrebbe essere il nuovo Tranformers (il primo naturalmente), ma in nulla riesce a sollevarsi sopra la media.

Sono il numero quattro non sarà il numero uno. Alcuni sinceri sentimenti che rappresenta, come confusione, rabbia giovanile e ricerca dell’identità, avrebbero potuto dare risultati inaspettati se sapientemente mischiati ai suoi elementi fantascientifici. Invece queste due locomotive, l’adolescenza e l’epica aliena, si muovono su binari paralleli. A volte sembra come se le pizze di due film diversi siano state mischiate in sala di proiezione.

(Cristina Fanti)

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

venerdì 11 febbraio 2011

Rabbit Hole

Nicole Kidman era scomparsa per un po’, da vera diva torna alla ribalta a bordo di una nave di cui è lei timone, scafo, albero maestro e soprattutto polena. Un film costruito per far brillare lei, la sua bravura e le sue ritrovate rughe.

Questo è Rabbit Hole.

Basato sull’omonima piece teatrale di David Lindsay-Abaire, racconta il lutto di una coppia che piange la morte del proprio figlio di quattro anni avvenuta pochi mesi prima per un incidente stradale. Ah però, lo so. La Kidman reagisce chiudendosi in una vita di forzata solitudine, sciatta e struccata, alla Virginia Woolf meno il naso, cerca di eliminare ogni ricordo del figlio sopprimendo le emozioni fino a far sembrare a chi le sta intorno che non ne abbia. Il suo degno marito, Aaron Eckart, si tuffa invece nel lavoro e gioca a squash con gli amici, continua a guardare vecchi video di suo figlio imbevendo magistralmente la sua sospettosa positività con una profonda filigrana di tristezza. Due strade parallele che si osservano da lontano.

Un carrozzone assemblato per trainare la Kidman sul tappeto rosso del Kodak Theatre, e che si è mosso bene. La vetrina in cui è stata inserita è perfettamente trasparente e immacolata. Ma ciò che c’è intorno al contrario della sua protagonista è stato praticamente ignorato. Con un DNA teatrale molto vivo, nel senso purtroppo peggiore del termine, consiste principalmente di dialoghi, lenti, lentissimi - ma di devastante profondità, una prova d’attore difficile (e superata a pieni voti dalla coppia), ma che forse si ferma a un mero esercizio di forma, poco prono a ricevere grandi consensi.

La sceneggiatura evita un diretto confronto con il dramma, per lo meno in senso convenzionale, e si focalizza piuttosto sull’imprevedibile, erratico fluttuare delle emozioni. I personaggi sono modellati come vasi vuoti che d’improvviso esplodono in un’onda repentina che fa risacca fra calma e tempesta. Si esplorano i classici percorsi di recupero, ma in maniera critica. Invece che fornire facili risposte il film si domanda come si possa andare avanti rifiutando i soliti cliché moralisti.

C’è dell’umorismo nascosto nel cinismo che la Kidman mostra con la sua insofferenza verso le banali consolazioni ecclesiastiche e l’ipocrisia del gruppo di auto-aiuto che la coppia frequenta, o con le paternali fatte a sua madre, che ha perso un figlio adulto per droga, per aver paragonato i loro rispettivi dolori. Usata sia per commuovere che per rilassare il pubblico, la risata sa essere curativa e amara. Questi piccoli particolari donano al film una sincerità di solito estranea a tematiche così drammatiche.
Il regista John Cameron Mitchell opta per un filo di leggerezza e con essa cuce il racconto con un afflato al contempo poco familiare e confortante. Aiutato da una fotografia intimista, crea una perfetta piattaforma organica perché gli attori dimostrino la loro bravura.

L’ambiguità di questo film, la sua resistenza nell’impegnarsi sia in un triste pessimismo che in una felice risoluzione rende Rabbit Hole un prodotto interessante, ma ostico per un pubblico più propenso ad aprirsi a racconti di epiche vittorie o di drammi su scala più semplicisticamente perversa o horror.

Meravigliosa la locandina americana, che racchiude in una potente immagine tutto il senso della difficoltà di fondersi in un unico per superare la tragedia. Una frase senza la quale non riesco a vivere come sottotitolo: “l’unico modo per uscire è passare attraverso”.

(Cristina Fanti)

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

domenica 6 febbraio 2011

Il Truffacuori - L'arnacoeur

C’era una volta il regno fatato della commedia romantica, fra le colline di Hollywood negli Stati Uniti. Poi un soffio di vento ha trasportato il seme della levità attraverso il mondo, in alcuni luoghi ha attecchito e prosperato, in altri no. E così anche i francesi hanno cominciato a saper impacchettare piccole graziose storie d’amore. Agli italiani invece è toccato Moccia.

Lo spunto di questo racconto è pretestuoso e stralunato, Alex Lippi, presentato a inizio film come uno 007 durante una sfilata in aeroporto, a ralenti e con sottofondo rock, è un sabotatore di coppie, un lavoro, come vediamo subito, molto credibile. Si occupa, con l’arma della seduzione, nonostante la mascella prepotente, di sfasciare relazioni amorose, ma soltanto nel caso in cui la donna sia infelice; nobile proposito, anche questo assolutamente credibile.

Infiltra la coppia con una mascherata coadiuvato da una squadra di collaboratori, sorella e cognato, propina la facciata di uomo sensibile, sparge qualche lacrima qua e la e apre gli occhi alle fanciulle su ciò che manca al loro uomo. Lo schema è sempre lo stesso e funziona, da dieci anni. Tutto fila liscio insomma, fin quando non gli viene presentata una missione impossibile: chiudere lo spazio fra gli incisivi di Vanessa Paradis. No, questa sarebbe fantascienza. Ha dieci giorni di tempo per mandare a monte il suo matrimonio perché il suo ricchissimo promesso sposo la sta facendo diventare estremamente facoltosa, e questo si sa renderebbe infelice ogni donna.

Il tono è naturalmente spensierato, pervaso di una vena comica piuttosto efficace e che regge bene il ritmo per tutti i 105 minuti, con picchi di vera ilarità della quale si resta stupiti se come me ci si approccia ai film francesi con sospetto, chapeau. I personaggi sono classici tipi da commedia, il bello, il brutto, il cattivo, il cattivissimo, la sagace e l’astronomica figa con la puzza sotto il naso, per lo più stereotipati e funzionali alle varie gag, ma pur sempre piacevoli. Gli episodi sono sopra le righe, rocambolesche comiche fisiche o piccoli giochi d’ironia. L’immagine di Romain Duris che pratica il carling per arrivare a conquistare una donna stabilisce il carattere del film fin dal primo minuto. Per non parlare dei suoi impacciati tentativi d’imparare la famosa coreografia di Dirty Dancing. Semplice e innocente comicità giocata sulle goffaggini di un personaggio altresì perfetto. Magari un tantino già vista, ma sicuramente ben lavorata. Le luci sono articolate, le immagini soffuse e dal gusto retrò, i colori studiati, la regia intelligente e veloce con brillanti scatti della macchina da presa e un divertente uso della quarta parete, gli abiti da favola.

Vanessa Paradis pare interpretare se stessa, quasi ci si scorda che il personaggio abbia un altro nome. Algida e imbronciata, tipicamente d’oltralpe, infonde però alla sua Juliette una tale grazia che sembra che plani piuttosto che camminare. Con ogni probabilità i tacchi da 14 centimetri che indossa l’hanno aiutata. Dolce e affascinante quando accenna un motivo del più vintage George Michael nascondendo seducentemente il viso per la vergogna. Comincio a entrare nella prospettiva di Johnny Depp.

Il tutto è molto ben amalgamato e seppure la storia d’amore fra i due protagonisti risulti alla fine come sbocciata dal nulla, priva di grosse nuance, in fondo in questo tipo di pellicola è il viaggio, e non il traguardo, che conta.

(Cristina Fanti)

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?

martedì 11 gennaio 2011

Kill me please

Bianco e nero nella forma, molto nero nei contenuti. Kill me please è una farsa scura e politicamente scorretta che prende le mosse in una clinica per la “buona morte” in cui si aiutano i pazienti a dipartire da questo nostro mondo infame. Ha i suoi momenti, ma soffre di un certo avaro desiderio di essere irritabile, compassionevole e provocatorio presupponendo di continuare a far sbellicare ininterrottamente dalle risate. Una certa freschezza e originalità ci sono, nel suo modo sardonico di trattare un taboo, e questo aiuta a reggere il pubblico tra gli infiniti cambiamenti di tono e cul de sac drammatici. Purtroppo a conti fatti è un film frustrante, mai così intenso, dissacrante o semplicemente divertente come vorrebbe essere.

I picchi di comicità sono soprattutto negli scambi verbali e nei guizzi fisici dei protagonisti, piuttosto che in scene realmente studiate per far ridere nella loro complessità. Qualche coup de theatre ben piazzato aiuta a ritirare su l’attenzione dopo alcuni piccoli cali di voltaggio.

Lo stile di ripresa vagamente documentario, camera a mano e fotografia austera, resta tutto sommato inspiegato. La macchina da presa è invadente ma non si rivela mai come giocatore attivo; sembra che i personaggi da un momento all’altro si rivolgano alla troupe ma in realtà non lo fanno mai, lasciandoci così timidamente in bilico fra soggettività grottesche e fissità impersonali.

Confidando su questo formato semi documentaristico Barco non ha la necessità di puntellare troppo la storia, e così il gran finale arriva sospinto da fragili ali drammatiche. Similmente, nonostante degli sprazzi in cui gli incastri funzionano, alla pellicola nel suo complesso sembra mancare coerenza. A dispetto della dichiarata indole farsesca e laconica la vicenda pare faticosamente cercare un messaggio complesso, senza però che si capisca quale. Forse che anche le strategie di fuga (dalla vita, in questo caso) più meticolosamente programmate hanno la strana abitudine di andare a finire nel verso sbagliato? Il semplice fatto che ce lo chiediamo fa meditare sulla riuscita dell’opera, che pure non ha scoraggiato la giuria del Festival del cinema di Roma dal conferirgli il premio più ambito.

Il perno della vicenda, il direttore della clinica, dott. Kruger, sembra minaccioso e sfuggente quando ci viene presentato, facendoci sperare che loschi affari emergeranno per il nostro sollazzo dai lettini della struttura. Man mano che la storia procede però queste sue qualità sono impastate in maniera sempre meno saporita, fino a volerci far credere che il motivo per cui si sia dato tanta pena nel mettere in piedi una tale struttura, con tanto di faida con il vicino villaggio con il quale intrattiene sparatorie alla Robocop, sia semplicemente perché convinto sostenitore del diritto umano di scegliere il modo, il tempo e il luogo di morire e niente più. Terribilmente blando, le nostre papille gustative battono in ritirata, sconfitte. Un personaggio sprecato.

Nel caso dei suoi pazienti invece accade il contrario; tutti sono soffritti lentamente e aggiungendo via via manciate di pepe. Cercare di scoprire fin quanto ognuno di essi sia effettivamente fuori di testa sembra il vero scopo della visione del film. Forse non quello per cui siamo venuti, ma pur sempre gustoso.

(Cristina Fanti)

CHE NE PENSI DI QUESTO FILM?


CHE NE PENSI DI QUESTA RECENSIONE?