venerdì 11 febbraio 2011

Rabbit Hole

Nicole Kidman era scomparsa per un po’, da vera diva torna alla ribalta a bordo di una nave di cui è lei timone, scafo, albero maestro e soprattutto polena. Un film costruito per far brillare lei, la sua bravura e le sue ritrovate rughe.

Questo è Rabbit Hole.

Basato sull’omonima piece teatrale di David Lindsay-Abaire, racconta il lutto di una coppia che piange la morte del proprio figlio di quattro anni avvenuta pochi mesi prima per un incidente stradale. Ah però, lo so. La Kidman reagisce chiudendosi in una vita di forzata solitudine, sciatta e struccata, alla Virginia Woolf meno il naso, cerca di eliminare ogni ricordo del figlio sopprimendo le emozioni fino a far sembrare a chi le sta intorno che non ne abbia. Il suo degno marito, Aaron Eckart, si tuffa invece nel lavoro e gioca a squash con gli amici, continua a guardare vecchi video di suo figlio imbevendo magistralmente la sua sospettosa positività con una profonda filigrana di tristezza. Due strade parallele che si osservano da lontano.

Un carrozzone assemblato per trainare la Kidman sul tappeto rosso del Kodak Theatre, e che si è mosso bene. La vetrina in cui è stata inserita è perfettamente trasparente e immacolata. Ma ciò che c’è intorno al contrario della sua protagonista è stato praticamente ignorato. Con un DNA teatrale molto vivo, nel senso purtroppo peggiore del termine, consiste principalmente di dialoghi, lenti, lentissimi - ma di devastante profondità, una prova d’attore difficile (e superata a pieni voti dalla coppia), ma che forse si ferma a un mero esercizio di forma, poco prono a ricevere grandi consensi.

La sceneggiatura evita un diretto confronto con il dramma, per lo meno in senso convenzionale, e si focalizza piuttosto sull’imprevedibile, erratico fluttuare delle emozioni. I personaggi sono modellati come vasi vuoti che d’improvviso esplodono in un’onda repentina che fa risacca fra calma e tempesta. Si esplorano i classici percorsi di recupero, ma in maniera critica. Invece che fornire facili risposte il film si domanda come si possa andare avanti rifiutando i soliti cliché moralisti.

C’è dell’umorismo nascosto nel cinismo che la Kidman mostra con la sua insofferenza verso le banali consolazioni ecclesiastiche e l’ipocrisia del gruppo di auto-aiuto che la coppia frequenta, o con le paternali fatte a sua madre, che ha perso un figlio adulto per droga, per aver paragonato i loro rispettivi dolori. Usata sia per commuovere che per rilassare il pubblico, la risata sa essere curativa e amara. Questi piccoli particolari donano al film una sincerità di solito estranea a tematiche così drammatiche.
Il regista John Cameron Mitchell opta per un filo di leggerezza e con essa cuce il racconto con un afflato al contempo poco familiare e confortante. Aiutato da una fotografia intimista, crea una perfetta piattaforma organica perché gli attori dimostrino la loro bravura.

L’ambiguità di questo film, la sua resistenza nell’impegnarsi sia in un triste pessimismo che in una felice risoluzione rende Rabbit Hole un prodotto interessante, ma ostico per un pubblico più propenso ad aprirsi a racconti di epiche vittorie o di drammi su scala più semplicisticamente perversa o horror.

Meravigliosa la locandina americana, che racchiude in una potente immagine tutto il senso della difficoltà di fondersi in un unico per superare la tragedia. Una frase senza la quale non riesco a vivere come sottotitolo: “l’unico modo per uscire è passare attraverso”.

(Cristina Fanti)

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