sabato 19 febbraio 2011

Un gelido inverno - Winter's bone

Il cinema americano ci mette nuovamente di fronte alla storia di un’adolescente. Questa volta invece del classico armadietto nel corridoio della scuola c’è una cucina scassata; al posto della squadra di football c’è una madre catatonica e due fratelli da mantenere; invece di pigiama party e sedute di trucco c’è la caccia e lo scuoiamento di piccoli scoiattoli; a sostituire il fidanzato biricchino un padre che spaccia metanfetamine, ed è momentaneamente scomparso.

Un gelido inverno appartiene alla più classica categoria di film da festival indipendenti, conquistati da storie gravi di gente miserabile che vive negli angoli più poveri del paese, i cosiddetti “stati da sorvolare”, e i cui alti e bassi morali ed emotivi sono accompagnati da chitarre acustiche e panorami evocativi, generalmente indifferenti allo humor.

S’inizia con una melodia sottotono nell’indigenza di una casa divorata dal bosco e si finisce con un crescendo horror con sega elettrica in un lago illuminato dalla luna. Questo spartito segue l’errare di una ragazza costretta a mettersi sulle tracce di suo padre quando questo usa la loro casa come cauzione. Per tenere un tetto sulla testa di tutti Ree (Jennifer Lawrence) deve trovarlo e portarlo in tribunale il giorno designato, ma nel tentativo di condiscendere a questo insolito obbligo familiare comincerà a far emergere segreti che non hanno un buon odore. Girovaga nel sottobosco di porta in porta chiedendo informazioni, aiuto o solo un brandello di basilare gentilezza.

Così facendo è costretta a tradire il codice del silenzio che mantiene la sua famiglia allargata, quasi l’intero paese, fermamente e orgogliosamente sul lato sbagliato della giustizia, oppure affrontarne le conseguenze. Ree è una moderna Antigone dalle pretese etiche che sono insieme interamente coerenti e potenzialmente fatali. Sebbene conosca e accetti le regole tribali che guidano il suo mondo, deve scegliere di scavalcarle, armata di un senso di giustizia considerato come il peggior sgarbo possibile da chi la circonda.

E’ tangibile il rammarico dei compaesani di non poter togliere di mezzo questa ragazzina ficcanaso causa legami di sangue, seppur labili. Allo stesso tempo le promettono tanto dolore, molto più di quello previsto per uno sconosciuto comunque, se tiri troppo la corda di questo privilegio.

Chiunque conosca la verità su suo padre è disposto a tutto per tenerla nascosta. Chiunque la incontri la fulmina con gli occhi. La persona potenzialmente più pericolosa di tutte è suo zio Teardrop – dal tatuaggio a forma di lacrima sotto l’occhio sinistro - (John Hawkes). Dà l’impressione che in ogni istante potrebbe aiutarla, assalirla o ucciderla. Il pubblico non può attestarlo con sicurezza, così anche Ree, e nemmeno Teardrop stesso.

Alcuni degli attori non sono professionisti e fra un tocco di banjo e una passeggiata nel bosco, in una pellicola che tutto sommato è molto taciturna, ci consegnano di quando in quando le loro battute con perfetta ingenuità (e accento, che si perde naturalmente al doppiaggio).

Granik ci presenta un dramma naturalistico con punte di thriller inaspettate usando musica country per sottolineare lo stoicismo e la melanconia di questo brutale mondo privo di morale.

Ad una scena, quando Bree tenta di entrare nell’esercito per incassare i 40.000 dollari di ricompensa, affida la risoluzione dl film. Il soldato che intervista la ragazza demolisce con tatto il suo sogno di scappare. Lui appartiene a un mondo fatto di possibilità ragionevoli, Ree vive altrove, in un universo governato da antichi rancori ed elaborati, inflessibili obblighi, onore e vergogna. E così il film si trasforma in ciò che in definitiva è: una storia di formazione attraverso cui la protagonista scopre quanto sia crudele il suo habitat naturale e contemporaneamente sia iniziata ad esso senza grande concreta possibilità di fuggire.

Noi però possiamo fuggire senza problemi da questa pellicola che fa sensazione per la bravura dell’attrice, come tante altre brave attrici, e per le tematiche scomode, trattate con mano adeguata, a cui si sa piace sempre battere le mani, ma che non genera molto più di qualche rispettoso sbadiglio.

(Cristina Fanti)

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giovedì 17 febbraio 2011

Sono il numero quattro - I am number four

I giganti calvi con tatuaggio tribale al posto dei capelli, branchie intorno al naso e denti dall’aspetto cariato ci sono. La stellina del tv-show del momento anche. Musiche di grido direttamente da MTV ad accompagnare pirotecniche esplosioni. Petti gonfiati, addomi scolpiti ed effetti speciali. Un cocktail gustoso, colorato, e con la fragolina a bordo bicchiere, ma shakerato con la vodka del discount, come quello dispensato a ripetizione, ormai per pochi spiccioli, dai nostri teleschermi. Con la differenza che questa volta siamo al cinema, di fronte ad un lungo, glorificato, episodio di telefilm.

Buffy l’ammazzavampiri incontra Heroes. Fratello del primo causa personaggi malvagi poco credibili, caricati al massimo nelle loro caratteristiche mutanti, che poi si risolvono nella semplice, piccola alterazione di alcune forme umane. Ancora si sente l’odore del silicone ed è calda sulla pelle degli attori l’impronta digitale del makeup artist. Cugino del secondo per l’impegnativa avventura di formazione di colui che riceve dei poteri senza sapere come usarli e deve aggiustare la sua vita a questo dono. Atmosfere buie e acrobazie fenomenali, con l’auspicato potenziale d’innalzo del sex appeal del protagonista per impennare i risultati al botteghino.

Una sorta di genero di Twilight, perché frutto di una fatica letteraria, neanche a farlo a posta una saga, e per quel suo protagonista un po’ outsider che alla prima occhiata fa scendere l’entusiasmo ma alla seconda la gonnella, rivelandosi di un altro mondo, uno speciale. Molto poco speciale invece la sua performance, che tutto sommato non è spiccata come i suoi muscoli, e lascia un buco nell’ordito.

Lo sfortunato erede di un mondo distrutto è costretto a nascondersi sulla Terra e a cambiare scuole come un normale ragazzo cambia t-shirt. Il suo nome è inventato, la sua identità è in realtà legata a un numero, il Quattro, anche se non si capisce bene perché. Nove sono i superstiti del pianeta Lorien e i terribili calvi di cui sopra li stanno eliminando, senza motivo, in ordine crescente. Fin ora hanno avuto la meglio sui primi tre di loro e per questo John, insieme al suo protettore Henri, decide di mischiare un po’ le carte trasferendosi ancora una volta. Nel suo nuovo liceo, popolato da figurine scollatesi dall’album della banalità, il quoterback, la biondina e il nerd, è necessario mantenere un basso profilo, cosa molto difficile se ti si accendono i palmi delle mani come schermi dell’iPhone e se puoi lanciare in aria persone e macchine della polizia come fossero carte da gioco. Diciamo che Numero Quattro incontra grossi problemi a non finire su YouTube.

Insomma, ci stanno raccontando una storia adolescenziale corretta, come fu per The Faculty nel 1998 e come è per tanti telefilm ai giorni nostri, da quando il binomio scuola e vampiri ha creato più assuefazione di quello caffè e sigaretta. Una base su cui si può lavorare, ma che Caruso e il suo produttore Michael Bay non sanno ottimizzare, lasciandosi prendere la mano dalla computer grafica senza darle il sostegno necessario da parte della storia e dei personaggi affinché questa ci lasci senza fiato. Tradiscono a suon di raggi laser lo spirito inizialmente evocato nei primi minuti di film, quello di un incontro ravvicinato molto radicato nella realtà. Vorrebbe essere il nuovo Tranformers (il primo naturalmente), ma in nulla riesce a sollevarsi sopra la media.

Sono il numero quattro non sarà il numero uno. Alcuni sinceri sentimenti che rappresenta, come confusione, rabbia giovanile e ricerca dell’identità, avrebbero potuto dare risultati inaspettati se sapientemente mischiati ai suoi elementi fantascientifici. Invece queste due locomotive, l’adolescenza e l’epica aliena, si muovono su binari paralleli. A volte sembra come se le pizze di due film diversi siano state mischiate in sala di proiezione.

(Cristina Fanti)

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venerdì 11 febbraio 2011

Rabbit Hole

Nicole Kidman era scomparsa per un po’, da vera diva torna alla ribalta a bordo di una nave di cui è lei timone, scafo, albero maestro e soprattutto polena. Un film costruito per far brillare lei, la sua bravura e le sue ritrovate rughe.

Questo è Rabbit Hole.

Basato sull’omonima piece teatrale di David Lindsay-Abaire, racconta il lutto di una coppia che piange la morte del proprio figlio di quattro anni avvenuta pochi mesi prima per un incidente stradale. Ah però, lo so. La Kidman reagisce chiudendosi in una vita di forzata solitudine, sciatta e struccata, alla Virginia Woolf meno il naso, cerca di eliminare ogni ricordo del figlio sopprimendo le emozioni fino a far sembrare a chi le sta intorno che non ne abbia. Il suo degno marito, Aaron Eckart, si tuffa invece nel lavoro e gioca a squash con gli amici, continua a guardare vecchi video di suo figlio imbevendo magistralmente la sua sospettosa positività con una profonda filigrana di tristezza. Due strade parallele che si osservano da lontano.

Un carrozzone assemblato per trainare la Kidman sul tappeto rosso del Kodak Theatre, e che si è mosso bene. La vetrina in cui è stata inserita è perfettamente trasparente e immacolata. Ma ciò che c’è intorno al contrario della sua protagonista è stato praticamente ignorato. Con un DNA teatrale molto vivo, nel senso purtroppo peggiore del termine, consiste principalmente di dialoghi, lenti, lentissimi - ma di devastante profondità, una prova d’attore difficile (e superata a pieni voti dalla coppia), ma che forse si ferma a un mero esercizio di forma, poco prono a ricevere grandi consensi.

La sceneggiatura evita un diretto confronto con il dramma, per lo meno in senso convenzionale, e si focalizza piuttosto sull’imprevedibile, erratico fluttuare delle emozioni. I personaggi sono modellati come vasi vuoti che d’improvviso esplodono in un’onda repentina che fa risacca fra calma e tempesta. Si esplorano i classici percorsi di recupero, ma in maniera critica. Invece che fornire facili risposte il film si domanda come si possa andare avanti rifiutando i soliti cliché moralisti.

C’è dell’umorismo nascosto nel cinismo che la Kidman mostra con la sua insofferenza verso le banali consolazioni ecclesiastiche e l’ipocrisia del gruppo di auto-aiuto che la coppia frequenta, o con le paternali fatte a sua madre, che ha perso un figlio adulto per droga, per aver paragonato i loro rispettivi dolori. Usata sia per commuovere che per rilassare il pubblico, la risata sa essere curativa e amara. Questi piccoli particolari donano al film una sincerità di solito estranea a tematiche così drammatiche.
Il regista John Cameron Mitchell opta per un filo di leggerezza e con essa cuce il racconto con un afflato al contempo poco familiare e confortante. Aiutato da una fotografia intimista, crea una perfetta piattaforma organica perché gli attori dimostrino la loro bravura.

L’ambiguità di questo film, la sua resistenza nell’impegnarsi sia in un triste pessimismo che in una felice risoluzione rende Rabbit Hole un prodotto interessante, ma ostico per un pubblico più propenso ad aprirsi a racconti di epiche vittorie o di drammi su scala più semplicisticamente perversa o horror.

Meravigliosa la locandina americana, che racchiude in una potente immagine tutto il senso della difficoltà di fondersi in un unico per superare la tragedia. Una frase senza la quale non riesco a vivere come sottotitolo: “l’unico modo per uscire è passare attraverso”.

(Cristina Fanti)

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domenica 6 febbraio 2011

Il Truffacuori - L'arnacoeur

C’era una volta il regno fatato della commedia romantica, fra le colline di Hollywood negli Stati Uniti. Poi un soffio di vento ha trasportato il seme della levità attraverso il mondo, in alcuni luoghi ha attecchito e prosperato, in altri no. E così anche i francesi hanno cominciato a saper impacchettare piccole graziose storie d’amore. Agli italiani invece è toccato Moccia.

Lo spunto di questo racconto è pretestuoso e stralunato, Alex Lippi, presentato a inizio film come uno 007 durante una sfilata in aeroporto, a ralenti e con sottofondo rock, è un sabotatore di coppie, un lavoro, come vediamo subito, molto credibile. Si occupa, con l’arma della seduzione, nonostante la mascella prepotente, di sfasciare relazioni amorose, ma soltanto nel caso in cui la donna sia infelice; nobile proposito, anche questo assolutamente credibile.

Infiltra la coppia con una mascherata coadiuvato da una squadra di collaboratori, sorella e cognato, propina la facciata di uomo sensibile, sparge qualche lacrima qua e la e apre gli occhi alle fanciulle su ciò che manca al loro uomo. Lo schema è sempre lo stesso e funziona, da dieci anni. Tutto fila liscio insomma, fin quando non gli viene presentata una missione impossibile: chiudere lo spazio fra gli incisivi di Vanessa Paradis. No, questa sarebbe fantascienza. Ha dieci giorni di tempo per mandare a monte il suo matrimonio perché il suo ricchissimo promesso sposo la sta facendo diventare estremamente facoltosa, e questo si sa renderebbe infelice ogni donna.

Il tono è naturalmente spensierato, pervaso di una vena comica piuttosto efficace e che regge bene il ritmo per tutti i 105 minuti, con picchi di vera ilarità della quale si resta stupiti se come me ci si approccia ai film francesi con sospetto, chapeau. I personaggi sono classici tipi da commedia, il bello, il brutto, il cattivo, il cattivissimo, la sagace e l’astronomica figa con la puzza sotto il naso, per lo più stereotipati e funzionali alle varie gag, ma pur sempre piacevoli. Gli episodi sono sopra le righe, rocambolesche comiche fisiche o piccoli giochi d’ironia. L’immagine di Romain Duris che pratica il carling per arrivare a conquistare una donna stabilisce il carattere del film fin dal primo minuto. Per non parlare dei suoi impacciati tentativi d’imparare la famosa coreografia di Dirty Dancing. Semplice e innocente comicità giocata sulle goffaggini di un personaggio altresì perfetto. Magari un tantino già vista, ma sicuramente ben lavorata. Le luci sono articolate, le immagini soffuse e dal gusto retrò, i colori studiati, la regia intelligente e veloce con brillanti scatti della macchina da presa e un divertente uso della quarta parete, gli abiti da favola.

Vanessa Paradis pare interpretare se stessa, quasi ci si scorda che il personaggio abbia un altro nome. Algida e imbronciata, tipicamente d’oltralpe, infonde però alla sua Juliette una tale grazia che sembra che plani piuttosto che camminare. Con ogni probabilità i tacchi da 14 centimetri che indossa l’hanno aiutata. Dolce e affascinante quando accenna un motivo del più vintage George Michael nascondendo seducentemente il viso per la vergogna. Comincio a entrare nella prospettiva di Johnny Depp.

Il tutto è molto ben amalgamato e seppure la storia d’amore fra i due protagonisti risulti alla fine come sbocciata dal nulla, priva di grosse nuance, in fondo in questo tipo di pellicola è il viaggio, e non il traguardo, che conta.

(Cristina Fanti)

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