Il cinema americano ci mette nuovamente di fronte alla storia di un’adolescente. Questa volta invece del classico armadietto nel corridoio della scuola c’è una cucina scassata; al posto della squadra di football c’è una madre catatonica e due fratelli da mantenere; invece di pigiama party e sedute di trucco c’è la caccia e lo scuoiamento di piccoli scoiattoli; a sostituire il fidanzato biricchino un padre che spaccia metanfetamine, ed è momentaneamente scomparso.
Un gelido inverno appartiene alla più classica categoria di film da festival indipendenti, conquistati da storie gravi di gente miserabile che vive negli angoli più poveri del paese, i cosiddetti “stati da sorvolare”, e i cui alti e bassi morali ed emotivi sono accompagnati da chitarre acustiche e panorami evocativi, generalmente indifferenti allo humor.
S’inizia con una melodia sottotono nell’indigenza di una casa divorata dal bosco e si finisce con un crescendo horror con sega elettrica in un lago illuminato dalla luna. Questo spartito segue l’errare di una ragazza costretta a mettersi sulle tracce di suo padre quando questo usa la loro casa come cauzione. Per tenere un tetto sulla testa di tutti Ree (Jennifer Lawrence) deve trovarlo e portarlo in tribunale il giorno designato, ma nel tentativo di condiscendere a questo insolito obbligo familiare comincerà a far emergere segreti che non hanno un buon odore. Girovaga nel sottobosco di porta in porta chiedendo informazioni, aiuto o solo un brandello di basilare gentilezza.
Così facendo è costretta a tradire il codice del silenzio che mantiene la sua famiglia allargata, quasi l’intero paese, fermamente e orgogliosamente sul lato sbagliato della giustizia, oppure affrontarne le conseguenze. Ree è una moderna Antigone dalle pretese etiche che sono insieme interamente coerenti e potenzialmente fatali. Sebbene conosca e accetti le regole tribali che guidano il suo mondo, deve scegliere di scavalcarle, armata di un senso di giustizia considerato come il peggior sgarbo possibile da chi la circonda.
E’ tangibile il rammarico dei compaesani di non poter togliere di mezzo questa ragazzina ficcanaso causa legami di sangue, seppur labili. Allo stesso tempo le promettono tanto dolore, molto più di quello previsto per uno sconosciuto comunque, se tiri troppo la corda di questo privilegio.
Chiunque conosca la verità su suo padre è disposto a tutto per tenerla nascosta. Chiunque la incontri la fulmina con gli occhi. La persona potenzialmente più pericolosa di tutte è suo zio Teardrop – dal tatuaggio a forma di lacrima sotto l’occhio sinistro - (John Hawkes). Dà l’impressione che in ogni istante potrebbe aiutarla, assalirla o ucciderla. Il pubblico non può attestarlo con sicurezza, così anche Ree, e nemmeno Teardrop stesso.
Alcuni degli attori non sono professionisti e fra un tocco di banjo e una passeggiata nel bosco, in una pellicola che tutto sommato è molto taciturna, ci consegnano di quando in quando le loro battute con perfetta ingenuità (e accento, che si perde naturalmente al doppiaggio).
Granik ci presenta un dramma naturalistico con punte di thriller inaspettate usando musica country per sottolineare lo stoicismo e la melanconia di questo brutale mondo privo di morale.
Ad una scena, quando Bree tenta di entrare nell’esercito per incassare i 40.000 dollari di ricompensa, affida la risoluzione dl film. Il soldato che intervista la ragazza demolisce con tatto il suo sogno di scappare. Lui appartiene a un mondo fatto di possibilità ragionevoli, Ree vive altrove, in un universo governato da antichi rancori ed elaborati, inflessibili obblighi, onore e vergogna. E così il film si trasforma in ciò che in definitiva è: una storia di formazione attraverso cui la protagonista scopre quanto sia crudele il suo habitat naturale e contemporaneamente sia iniziata ad esso senza grande concreta possibilità di fuggire.
Noi però possiamo fuggire senza problemi da questa pellicola che fa sensazione per la bravura dell’attrice, come tante altre brave attrici, e per le tematiche scomode, trattate con mano adeguata, a cui si sa piace sempre battere le mani, ma che non genera molto più di qualche rispettoso sbadiglio.
(Cristina Fanti)
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