domenica 1 maggio 2011

Machete

E’ nato prima l’uovo o la gallina? Nel grande schema dell’universo a questa domanda non c’è risposta. Nell’industria cinematografica si. Il primo è il film, poi il trailer. Quando l’ordine viene invertito è probabile che qualcosa vada storto.
Nel 2007 Rodriguez si diverte con il suo compagno di merende Quentin Tarantino a inframezzare il loro Grindhouse con ironici trailer immaginari di film inesistenti.
Passano gli anni, uno di loro diventa realtà, e in qualche modo l’ironia si perde.

L’inizio del film è promettente. Machete, un agente federale, combatte la battaglia del giusto contro un trafficante locale, Steven Segal. Si, quello Steven Segal, con indosso un centinaio di chili di troppo di lipidi complessi. Tutto nella scena di apertura è conforme agli standard del genere: gli angoli di ripresa, la saturazione del colore, i graffi alla pellicola, le decapitazioni, il sangue, le donne nude, chi più ne ha più ne metta. In pieno stile exploitation, molto goloso per chi ne è fan. A seguito di questa iniezione di violenza con abbondante scarica di sudicia aggressione visiva, il film collassa.

Tre anni dopo il prologo Machete fa l’operaio in Texas e viene ingaggiato per commettere l’omicidio del Senatore fanta-razzista Robert DeNiro. Si scoprirà che è stato incastrato, e che come regola generale è meglio non far arrabbiare qualcuno che somiglia a Danny Trejo, il quale ovviamente non la prende bene e si lancia in una corsa alla vendetta. Tutta la storia di qui in poi consiste nel tentativo di Machete di stare un passo avanti rispetto ai suoi nemici, che aumentano a vista d’occhio.

Robert Rodriguez, regista, autore, produttore e montatore della pellicola, avrebbe tratto serio beneficio da qualche taglio in più. Il film è oppresso dall’ingombro di un fiume di personaggi e da una trama tortuosa che sottrae minuti preziosi di presenza sullo schermo al viso rugoso del suo protagonista. Alla stregua di quel che successe per C’era una volta in Messico, con cui Rodriguez puntò all’epos ma si scordò che la sua forza risiedesse nel bagno di sangue.

Tutto ciò diventa particolarmente frustrante quando quello che del film funziona, funziona dannatamente bene. Le scene d’azione sono coinvolgenti e creative, e il sangue zampilla a secchiate senza però disgustare. Alcune battute sono molto divertenti, e se ne sente la mancanza nei frequenti momenti in cui il ritmo stagna nel cercare di trovare un senso logico agli avvenimenti attraverso i dialoghi. Innanzitutto, un senso logico non c’è, secondo poi, il film non ne ha minimamente bisogno.

Il personaggio di Lindsay Lohan, che praticamente interpreta se stessa, figlia di un uomo benestante, drogata e ninfomane, fenomeno mediatico di YouTube, potrebbe essere asportato completamente. Michelle Rodriguez, una militante di stampo guevariano, tant’è vero che si fa chiamare Shé, e Jessica Alba, una spietata agente del dipartimento d’immigrazione di frontiera, che però mostra di avere un cuore, avrebbero potuto essere combinate in un unico personaggio. Il villain di DeNiro sarebbe dovuto essere centellinato con maggiore parsimonia, il suo impatto è infatti inversamente proporzionale ai minuti di presenza.

A onor del vero quando Machete incastra termometri da arrosto dentro le persone, o si lancia dai piani alti di un ospedale usando gli intestini di un uomo come liana, o ancora quando Jessica Alba si scontra con un energumeno mascherato da wrestler usando come arma un paio di scarpe di vernice rossa tacco 12, ci si dimentica di tutti i problemi. Fatto è che questi a fasi alterne si ripresentano.

Il maggiore è che il film vuole prendere posizione rispetto al dibattito sull’immigrazione, ma il suo intervento praticamente si riduce ad un crasso, inutile “non siate razzisti con i messicani”.
C’è una sorta di distacco fra lo schermo e lo spettatore, l’atmosfera in sala manca spesso di slancio. Questo Machete sembra affilato come un coltello da burro.

(Cristina Fanti)

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