venerdì 2 settembre 2011

The Walking Dead, seconda stagione da paura


Un lancio in contemporanea mondiale lo scorso anno per una prima stagione breve ma intensa.
Un'epidemia, racconta la sua versione della storia Andrew Lincoln, uno degli attori protagonisti, tramuta l'umanità in zombie. In realtà non è ben specificato cosa sia successo, e il punto, che sottolinea il creatore della serie, Frank Darabont, è che non è importante il perché bensì il come: pustole, occhi iniettati di sangue, pelle cadente ed un'irresistibile, contagiosa voglia di mangiare uomini. Con un solo morso possono ridurti come loro. Il perché questo aspetto sia importante è subito spiegato: una manciata di persone è rimasta immune a questa inaspettata trasformazione e si ritrova a scappare dal menù a la carte dei morti viventi. Così termina il nostro fugace sunto per chi ultimamente fosse vissuto sotto una roccia.

Ora, cosa ci aspetti per la prossima stagione, questo sì, lo sanno in pochi. Perché il cast e la troupe custodiscono a peso d'oro le informazioni estratte dalle nuove sceneggiature, il doppio in numero rispetto allo scorso anno, per un’annata più lunga e più articolata.
La promessa è una quantità di zombie mai vista prima, e questo fa tirare un sospiro di sollievo ai fan, e una più intricata analisi dei personaggi, che, con un cast corale di 13 protagonisti può diventare interessante. Il corollario è che superato lo shock iniziale il grappolo di superstiti debba cominciare a fare i conti con una nuova esistenza, contaminata, perseguitata, e mai più come una volta. Non si tratterà più solo di scappare, ognuno di loro dovrà decidere come affrontare il domani, se combattere, e come, per sopravvivere o lasciarsi andare. Sarà così che assisteremo a una grande crescita personale e collettiva mentre il gruppo di fuggiaschi diventa man mano una famiglia allargata, comprendendo i Grimes, madre padre e figlio, gli altri superstiti incontrati nella prima serie ed una nuova famiglia su cui è impossibile rubare indiscrezioni.

Anche quest’anno è previsto un battage pubblicitario planetario che lancerà la serie nell’iperspazio dei nerd con biglietto di sola andata. Ma facciamo una pausa e chiediamo al cast cosa voglia dire essere nerd. “Un nerd è un entusiasta” dice Lincoln, “secondo questa definizione io sono un nerd, ognuna delle persone coinvolte in The Walking Dead lo è”. La forza del prodotto secondo i protagonisti e i creatori sta infatti nell’incredibile entusiasmo con cui è realizzato, che porta gli episodi a essere così esplosivi, gli effetti speciali così dettagliati e il pubblico così reattivo. Una giornata sul set è come una festa di Halloween trattata con molta serietà, con attenzione al dettaglio, dedizione e professionalità, le quali trasudano poi dallo schermo decretandone il successo. Nessuno si sorprende dunque che un contenuto così di genere abbia avuto un successo planetario, perché la cultura popolare, dicono, è un organo democratico, e ciò permette a un animale da nicchia come questo, se realizzato onestamente e con passione, di stimolare altrettanto sincero interesse. Una squadra che non teme concorrenti finché, come pare che sia, il lavoro procederà a ranghi serrati con sceneggiature che tengono il fiato sospeso, un’impeccabile attenzione ai dettagli e indiscusso rispetto per il concetto originale, un mondo straordinario ma ferocemente realistico.

Realistico nelle relazioni. Costrette a vivere fianco a fianco diverse personalità che fanno a cazzotti si trovano a dover cooperare contro un nemico più grande. Un continuo divenire, sia per chi guarda che per chi recita. Non ci si annoia mai negli studi della AMC, un giorno ci si deve odiare, il giorno dopo è necessario difendersi a vicenda da un inaspettato attacco di zombie. Le emozioni sono mantenute vive, la performance interessante.
Realistico nelle interpretazioni. Lanciati in una foresta popolata di animali assurdi per girare una scena della seconda stagione, gli attori non hanno dovuto faticare per fingere di essere spaventati dall’imminente attacco dei morti viventi dovendosi guardare per davvero le spalle dalle bestie selvatiche.

A tal proposito, come in tutti i greggi c’è una pecora nera. Così come in ogni mondo post-apocalittico non c’è niente di veramente al sicuro. Chiunque dall’oggi al domani potrebbe essere morso e trasformato. I produttori ci tengono a sottolineare che tutto può succedere e nessuno, nessuno, è salvo, lanciando gli attori in una sessione straordinaria di analisi a microfono aperto in cui raccontano come sia meraviglioso lavorare con un gruppo così coeso, finendo in un panegirico rivolto al boss Darabont il cui succo ha tanto il sapore di una supplica per mantenere il proprio posto di lavoro. Sono candidi nell’affermarlo, sperano davvero che il loro personaggio sopravviva per non dover abbandonare lo show, ma ne hanno la certezza soltanto di settimana in settimana quando ricevono la sceneggiatura della nuova puntata, al che si chiudono in un luogo isolato per leggerla tutta d’un fiato. Tra i giornalisti si mormora, la curiosità a questo punto bolle finché, per tornare alla pecora nera, la bionda del gruppo, Laurie Holden, per non tradire le aspettative legate al suo colore di capelli, quando le viene chiesto quanto tempo si impiega a truccare uno zombie cinguetta: “Che ne sappiamo noi, nessuno dei presenti è stato ancora trasformato”. Ci sarà da crederle?


(Cristina Fanti)
da Sky Magazine

giovedì 1 settembre 2011

L'Alba del Pianeta delle Scimmie, la rEvoluzione


In origine fu Charlton Eston, che alla fine trovò la Statua della Libertà e capì che si trovava sulla terra. Poi andarono di moda gli uomini muscolosi e fu la volta di Mark Whalberg, che alla fine trovò il Lincoln Memorial e capì che si trovava sulla terra.

Oggi è il momento della svolta animalista e di rivivere la mitologia de Il Pianeta delle Scimmie attraverso gli occhi di un primate. Non uno qualsiasi bensì quello che ha iniziato la guerra che ha posto fine al mondo come lo conosciamo.

Era ora, sostiene il regista Rupert Wyatt, di rivisitare questo mito senza tempo, mantenendo delle similitudini con il passato ma azzerando gran parte di ciò che abbiamo visto fin ora, soprattutto i vari viaggi nel tempo che, diciamocelo, sono nati fondamentalmente dalla necessità di arrangiare un sequel. Liberi da questa schiavitù narrativa il team dietro a L’Alba del Pianeta delle Scimmie si è concentrato sulla storia di uno scimpanzé dotato di un’intelligenza raffinata, mutata dal virus dell’alzheimer, e allevato da un ricercatore (James Franco) come un membro della sua famiglia, dunque abituato a vivere come un uomo.

Era ora perché finalmente è stato possibile affrancarsi da costumi pelosi e protesi facciali e popolare la scena di veri primati senza bisogno d’impiegarne alcuno. Quantomeno ipocrita sarebbe stato lo sfruttamento di scimmie per un film che racconta della loro liberazione. E così è ancora una volta l’avanzamento tecnologico a fare da propulsore all’arte. Insomma, se la vita ti da i limoni non ti resta che fare la limonata. Per indugiare nella nostra metafora, il regista assicura che la performance capture (e cioè la registrazione computerizzata dei movimenti del corpo per poi sostituirne le fattezze) è solo il bicchiere, ovvero un mezzo per dissetare lo spettatore, e non il succo della comunicazione, non dunque un genere cinematografico a se stante.

Uno splendido strumento, commenta Andy Serkis, protagonista del film, che slega l’attore dal suo corpo e lo mette in grado d’interpretare qualsiasi cosa, con il solo limite dell’immaginazione. E’ naturalmente molto difficile riuscire a ignorare la tuta e la maschera, i cavi e i sensori che permettono la cattura del movimento e inanellare una buona performance, ma lui in questa pratica è considerato il leader mondiale. Il motivo secondo Wyatt è semplicemente, anche se in molti se lo scordano, che è un grande attore.

Affezionato alle scimmie, che interpreta per la seconda volta dopo il Kong di King Kong di Peter Jackson, racconta di aver prima studiato come si comporta uno scimpanzé e di aver poi costruito su quell’impalcatura il personaggio di Caesar, la cui intelligenza descrive come quella di un bambino super dotato: inconsapevole. Innanzitutto è stato questo soggetto molto complesso ad attrarlo alla storia, un essere sfaccettato che fra le altre caratteristiche aveva quella di essere un animale.

Caesar cresce fra gli uomini e crede di fare parte della nostra specie ma non gli sono stati attribuiti connotati troppo umanoidi, quale presunzione avvicinare a noi ogni essere d’intelligenza superiore. La sua brillantezza, così come la sua brutalità risulteranno credibili e il duo assicura che la sua essenza non è stata “disneyficata”.
D’altra parte le scimmie in questo film non parlano, i pensieri e le decisioni di Caesar devono dunque passare attraverso le espressioni e i movimenti del corpo, senza essere però troppo didascalici rischiando di tradire la realistica fisicità animale. Una bella sfida. Una sfida molto costosa, sottolinea il regista.

La verità nascosta fra le pieghe della sua pelle coriacea esplode quando Caesar raggiunge un punto di rottura con il suo mondo e si rende conto di essere diverso dalla famiglia con cui è cresciuto. E’ rinchiuso quindi in un santuario, uno zoo avanguardista, che ospita parecchie scimmie dal passato traumatico incapaci d’interpolarsi fra loro se non con la violenza, come in una galera, ed entra finalmente in contatto con la sua specie, che però non riconosce come tale.

In questo limbo esistenziale nel quale è stato innestato in qualche modo dall’uomo e dalla scienza Caesar trasformerà l’evoluzione in rivoluzione. Appuntamento al 23 Settembre, quando un nuovo mondo sorgerà.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it