giovedì 3 marzo 2011

Easy girl - Easy A

La sfilata lenta e regolare nei ben noti corridoi liceali d’irrilevanti commedie adolescenziali, i nerd della scuola, è stata negli anni occasionalmente ravvivata dal passaggio veloce di quel bellissimo giocatore di football o di quella bionda cheerleader, che hanno fatto girare molte teste. Parliamo delle fortunate rielaborazioni di classici riassettati in base all’ultima moda, che le donne di oggi citano religiosamente a memoria: Ragazze a Beverly Hills, ad esempio, Emma di Jane Austen, e 10 cose che odio di te, La bisbetica domata di quel tale William Shakespeare.

Easy Girl passeggia tra una classe e l’altra al cambio dell’ora tenendo a buon titolo la testa alta ed entra con convinzione nell’aula del club di letteratura. Non è un pedissequo remake de La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, piuttosto un'occhiata indiscreta alle tematiche del romanzo - ipocrisia, umiliazione, conformismo, codardia sociale, bontà individuale - all'interno di un liceo californiano dove il libro è inserito nel programma didattico.

Emma Stone, difetto di pronuncia incluso, confeziona un personaggio intelligente e sagace, che quasi ci si chiede come facciano i suoi ciechi coetanei a non trovarla attraente. Ma questa domanda ce la siamo posta un po' tutte crescendo e la risposta è sempre stata la stessa. Gli uomini in adolescenza non posseggono il lume della ragione.

Dunque Olive, la Stone, è una ragazza come tante, che passa metà del suo tempo a parlare di sesso e l’altra metà nella sua stanza a non farlo. Messa alle strette e desiderosa d’impressionare la sua amica più discinta, di cui non può che invidiare le tette enormi, confessa un finto rapporto sessuale, mentre la mostruosa fondamentalista cattolica di turno origlia e provvede poi a trasformare questo pettegolezzo in uno scandalo. Presto, per far trent’uno, dopo aver aiutato un gay tormentato ad apparire agli occhi dei compagni come un perfetto eterosessuale, Olive si guadagna una A+ in prostituzione giovanile.

Nonostante una ragazza come lei avrebbe dovuto intuire che le cose stavano per mettersi male, Olive sceglie con cognizione di giocare al femminismo postmoderno. Usa la sua sessualità senza vergogna, vestendosi da spogliarellista di prima mattina e cucendo una “A” scarlatta su tutti i suoi mini bustini. Ma quando confessa a coloro di cui si fida di essere in realtà ancora vergine, beh, non mostra vergogna neanche in questo. Easy Girl è come un ananas dopo il pranzo alla mensa, fresco, e depurativo. E’ libero da giudizi morali sulle variabili del fare sesso o meno concludendo che non importa con chi si vada a letto basta che ognuno lo tenga per sé. Non si tratta del messaggio più rivoluzionario, certo, ma di uno assente nella maggior parte dei teen-movies, ossessionati dall’incasellare il sesso in un senso o nell’altro.

Puntuale come una campanella fra una lezione e la successiva, su alcuni passaggi la trama diventa troppo tentacolare: le avventure del professore di lettere con moglie fedifraga e di un pluri-ripetente di 22 anni sembrano prese in prestito da un film peggiore, meno sicuro di sé. Molto bizzarra anche la parte di Amanda Bynes, ex regina di questo genere di pellicole, che pare trapiantata da uno dei suoi vecchi film senza essersi messa nel frattempo al passo con i tempi. La Bynes interpreta Marianne, una replicante figlia del cattolicesimo, la quale, anche considerando gli standard di grande caratterizzazione dei personaggi che piagano questo tipo di film, non è niente più che un bullo di una sola dimensione che rifiuta di seguire il corso “religioni delle altre culture” bollandolo come fantascienza. Mandy Moore in Saved dopo che qualcuno l’ha scordata nella varechina.

Questo esperimento della neo wave hughesiana non possiede la scintilla di Una pazza giornata di vacanza o la frizzantezza di Mean Girls, ma fornisce una puntuale, intelligente istantanea della natura della reputazione nell’era della socializzazione online, quando qualsiasi cosa che sia inviata per sms o pubblicata su facebook è automaticamente vera, anche senza lo straccio di una prova. La stessa protagonista ricorrerà a YouTube per fornire la sua versione dei fatti. Finché non accende una telecamera, se la punta addosso e trasmette dalla sua stanzetta, infatti, nessuno la sta neppure ad ascoltare.

(Cristina Fanti)

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mercoledì 2 marzo 2011

The Fighter

Un film cullato per tre anni, nato da un cortometraggio, voluto con fatica da persone che si sono innamorate della storia di redenzione di questi due fratelli e ci hanno creduto. Giunto nelle mani di Mark Wahlberg, lui, appassionato della vicenda già da tempo, e combattivo più che mai, lo ha portato alla luce, la luce del Massachusetts, che ha impressionato la pellicola con i toni spenti della periferia. Scenografie, costumi e apparenze poco lusinghiere degli attori costruiscono un mondo reale e crudo, un crudo neppure troppo ripulito con il noto smacchiatore “Hollywood”. Questa troupe ha giocato a fare l’indipendente, mostrando di affidarsi alla recitazione invece che ai numeri della produzione. Una decisione che giunge dal cuore ma che forse al cuore non arriva fino in fondo.

Si tratta di un Rocky impolverato, rotolato nel terriccio e sgrullato grossolanamente. Lo scheletro del film è lo stesso di molti altri del genere, una storia di drammatiche conquiste atletiche, ma la forma e il tono della carne poggiata sopra queste ossa distingue The Fighter da molti dei suoi cugini cinematografici. La storia di Mickey, che cerca nelle difficoltà di arrivare al successo, con un allenatore drogato, suo fratello, vecchia gloria della boxe, e una manager alcolista, sua madre, che si crogiola nel bagliore della fama ormai scaduta del primogenito, costituisce l’arco narrativo. Ma sono i personaggi ciò su cui batte il fuoco la macchina da presa. Fallati e pacchiani come oggetti acquistati al discount, ma, come questi, anche positivamente basici, veri, all’osso. Russell non si allontana quasi mai dalle facce e dai corpi dei suoi protagonisti, lasciando che le loro espressioni e i loro gesti, sia fuori che dentro il ring, veicolino il nucleo pulsante che si cela dietro lo spettacolo offerto dallo sport, che è poi il punto stesso del film. E’ aiutato dalle scintille che emanano i dialoghi, fruste lanciate avanti e indietro come affilati pugnali.

I blocchi di scene corali della famiglia Ward-Eklund sono la cifra di un film costruito con cura. Nulla giace troppo a lungo e lo stile di lotta testa-corpo/testa-corpo che ha reso famoso Ward ha un eco nello stile di regia di Russell, che alterna nel suo spartito boxe-famiglia/boxe-famiglia. Il film si apre con un’ottima prima scena, apice artistico della pellicola, nella quale seguiamo Dicky e Mickey che camminano per strada, facendosi belli in giro per il quartiere, tampinati da una troupe televisiva che filma quello che Dicky pensa sarà un documentario sul suo ritorno al ring. La macchina da presa è portata con leggerezza, s’incunea e si ritrae dalla messa in scena, danza come un pugile, ma presto poi purtroppo si dimentica di come si combatte.

Mickey Ward è uno strumento monocorde. Nella vita, trascurato in favore delle sue sorelle impossibili e del suo vistoso fratello, ha sempre parlato poco e picchiato molto. In questo senso Wahlberg lo suona alla perfezione, sembra quasi non recitare affatto e si potrebbe perfino incolparlo di aver lasciato che il cast di supporto riuscisse nell’adombrare così tanto il proprio leader (non a caso è l’unico rimasto a secco di nomination).

Dicky d’altro canto ha una mente fenomenale e conosce la boxe meglio di ogni altra cosa. Ad eccezione di dove trovare del crack. Bale ci convola a nozze, ci mostra un angolino di recitazione con la “R” maiuscola e ci apre un mondo, come è solito fare. A questa divinità del trasformismo va incontro la più nuova moda cinematografica, che prevede per i film basati su persone reali il dovere legale di mostrare almeno un fotogramma, sentimentale e celebrativo, di queste stesse durante i titoli di coda. E così li vediamo, tanto riconoscibili quanto ovviamente non così attraenti come i divi che prestano loro il corpo, a sottolineare l’autenticità del film con la loro palpabile verità, e il lavoro che questo sconvolgente attore ha palesemente compiuto su se stesso si tinge di nuove profondità.

Nonostante tutte le nomination agli Oscar, e le relative vittorie, The Fighter andando a stringere non è altro purtroppo che la somma delle sue parti e una semplice, discreta vetrina per far brillare ancora una volta la più eclettica, meravigliosa stella del firmamento hollywoodiano, un certo Christian Bale.

(Cristina Fanti)
da filmfilm.it


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